A nostro giudizio, il miglior commento sull’ascesa di Giorgio Napolitano al Colle è quello di Carmelo Palma, dei Riformatori Liberali. Tra tribalismo e miti ideologici, tra sbianchettamento della storia e antichi pregiudizi settari, i diessini hanno preferito inviare al Quirinale un anziano signore di 81 anni, dal posticcio pedigree socialdemocratico (tutto è relativo, in questo paese). Vera cariatide del fu-Pci, e corresponsabile della linea politica di quel partito negli ultimi cinquant’anni, nel bene e (soprattutto) nel male. Nessuno spazio per Giuliano Amato, vicepresidente del Partito Socialista Europeo e coscienza critica della sinistra riformista europea, colpevole di non essere appartenuto alla grande chiesa del fu-Bottegone, ora Botteghino affetto da bulimia di potere. Scrive Palma:
A sinistra si ritiene ancora che non esistano responsabilità politiche imputabili, se non quelle “giudiziarie” rispetto alle leggi dello Stato, o “di tradimento” rispetto alle regole della tribù.
Per queste ragioni, essere stato un “uomo di Craxi”, come Amato, è ritenuta colpa infinitamente peggiore di quella (che forse neppure colpa, ancora, è giudicata) di essere stato “uomo di Togliatti”, come Napolitano.
Il neo-monolite diessino, che in termini di consenso elettorale stenta a crescere o non cresce affatto, festeggia con l’espressione livida di Piero Fassino un’elezione che ci riporta alla Prima Repubblica, con l’aggravante dell’arroganza istituzionale del metodo di elezione, con quel vulnus della maggioranza semplice al cui esito hanno tuttavia attivamente partecipato alcuni soliti noti della CdL. Un festeggiamento che non riesce a nascondere sotto il tappeto della cortigianeria mediatica le difficoltà di una coalizione che è riuscita a dividersi persino su problematiche “semplici” quali l’elezione dei presidenti di Camera e Senato, e che nelle prossime ore dovrà affrontare un nodo politico ben più serio: la scelta del o dei vicepremier. Perché il caso-D’Alema resta lì, come un macigno, sulla magnifica sorte e progressiva del prossimo governo Prodi. Ma torniamo a Napolitano ed ai diesse. Quali sono i miti fondanti del neo-progressismo del Botteghino?
Nella pubblicistica e nella coscienza diffusa di quella disordinata e compattissima fazione che sta a (e, per l’essenziale, “fa” la) sinistra, la dissoluzione politico-giudiziaria della Dc e del PSI è ancor oggi un mito fondante; non si può dire che lo siano o lo siano parimenti stati la caduta del muro di Berlino, dell’impero sovietico e dell’utopia prodiga di illusione e di morte del comunismo. Al contrario, a quella storia e a quell’appartenenza è tuttora riconosciuto (quando non rivendicato) un rango di nobiltà o se non altro di “necessità storica”, che assolve e assorbe nella dialettica degli eventi ogni parvenza di responsabilità individuale.
In questo risiede la radice dell’illiberalismo storico e politico della sinistra italiana: la rimozione del principio di responsabilità politica individuale. Auguri al presidente Napolitano, il cui revisionismo storico è autenticamente comunista: ha impiegato alcuni decenni a realizzare pubblicamente che, nel 1956, i liberatori dell’Ungheria dagli scherani della “controrivoluzione” (cioè gli assassini di Imre Nagy) non erano, propriamente, dei salvatori della pace. Da oggi, anch’egli potrà contribuire al progetto costruttivista della nostra sinistra. Lo farà da par suo, con l’understatement che da sempre lo contraddistingue: niente “ricerca della felicità”, dunque, ma un più umile “contributo per dare serenità”.
Le mani di George W. Bush sono “sporche di sangue”? Si rivolga ai post-comunisti italiani: il loro sapone resta ineguagliato, alla bisogna.
UPDATE: “Giuliano Amato non appartiene alla nostra setta”: il commento di Pierluigi Battista.