L’ascensore sociale si ferma in banca

Il posto di lavoro si eredita dal padre o magari anche da un fratello, uno zio o da un nonno. Lo prevede un accordo sugli esodi incentivati firmato la sera scorsa tra la Banca di Credito di Roma, Federlus (federazioni delle Bcc del Lazio, dell’Umbria e della Sardegna) e le sigle sindacali del credito Fabi, Fisac-Cgil, Fiba-Cisl, Uilca, Sincra-Ugl. L’intesa, che entrerà in vigore a gennaio del 2010, sarà valida fino al 31 dicembre 2012 ed interesserà circa 76 lavoratori dell’azienda, prevede una serie di incentivi per i dipendenti che sceglieranno di andare in prepensionamento. In alternativa ai quali – informa una nota della Fabi – si potrà scegliere di far entrare in banca al proprio posto un figlio o un parente fino al terzo grado.

Pronta la grancassa sindacale per questo bizzarro accordo: ”I grandi gruppi bancari dovrebbero prendere d’esempio l’accordo raggiunto alla banca di credito cooperativo di Roma”, sostiene il segretario generale aggiunto della Fabi, Lando Sileoni, sottolineando che l’intesa garantisce un “ricambio generazionale fra i dipendenti che volontariamente scelgono di essere collocati in pensione in cambio dell’assunzione di un figlio o di un parente fino al terzo grado”. Detta così, sembra che le skills necessarie per lavorare in una banca siano una variabile indipendente, oppure che quello del bancario sia un cromosoma. O forse per lavorare in una banca italiana non servono in realtà competenze diverse dal conformismo e dall’acquiescenza. Forse è proprio questo il punto.

Soddisfatto anche un altro sindacalista, Alessandro Violini, vice-coordinatore nazionale Fabi in Bcc, secondo il quale “è molto positivo che in questo periodo di grave crisi economica e di tagli occupazionali, determinati dalle grandi fusioni bancarie, un istituto di credito come la Bcc di Roma decida di investire nelle nuove assunzioni, che porteranno in banca forza lavoro giovane e sostanzieranno certamente il programma aziendale di crescita. Questo significa che, nonostante il momento difficile, la banca di credito cooperativo continua a perseguire la sua missione sociale, missione che da sempre, per tradizione e storia, ne impronta l’azione”. Ora, Violini sa perfettamente che l’esigenza delle banche, di tutte le banche, è quella di comprimere il costo del lavoro, quindi liberarsi di soggetti anziani e costosi (quasi sempre per effetto di avanzamenti automatici di carriera) sostituendoli con giovani, spesso dotati di master, da pagare poco ed utilizzare come lobotomizzati venditori da sportello è funzionale allo scopo.

Che realtà legate al territorio ed alle comunità tentino di isolarsi dalla congiuntura, spesso con risultati incoerenti (come le improbabili campagne protezionistiche di agricoltori ed allevatori sui prodotti a “chilometro zero“, nel momento in cui gli stessi si lamentano di non riuscire ad accedere ai mercati “esterni”), è comprensibile, anche se non condivisibile. Meno comprensibile è che si tenti di elevare a modello una simile negazione di competenze e professionalità, che non a caso può affermarsi proprio in contesti competivi molto blandi, come resta (malgrado i progressi degli ultimi anni) quello del credito in Italia.

Se queste sono le risposte di sistema alla crisi (il protezionismo, il corporativismo, l’ereditarietà del posto di lavoro, il tripudio di denominazioni di origine protetta, garantita, controllata e quant’altro), è perfettamente inutile organizzare surreali dibattiti durante i quali ci si gratta la testa chiedendosi perché in Italia “l’ascensore sociale si è fermato”. Il punto è che quell’ascensore non ha mai lasciato il pianterreno.

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