Altra giornata molto pesante, per le azioni delle banche italiane. Tanto per cambiare, verrebbe da dire. Le spiegazioni non mancano, e sono quasi tutte riconducibili alla forte vulnerabilità strutturale dei nostri istituti di credito, che sono da tempo diventati il vero spread del rischio Italia. Con buona pace della ricerca di capri espiatori rigorosamente stranieri da parte della nostra cosiddetta classe dirigente.
Di MPS abbiamo detto ormai alla nausea: gli obbligazionisti subordinati hanno realizzato che a pagare saranno loro, diventando azionisti, e cercano quindi di liberarsi della patata bollente, facendo franare inesorabilmente le quotazioni dei bond verso quello che potrebbe essere l’haircut di un bail-in di media severità, il 50%. Oggi sui quotidiani (Sole) si dà conto di voci su un presunto “Piano B”, che poi è quello di cui vi diciamo da mesi, e vi abbiamo ribadito in questi giorni: bail-in parziale, con conversione in azioni, e intervento del Tesoro per pari importo, come aiuto di Stato ammissibile. Perché non è affatto detto che la Ue accetterà le circostanze straordinarie, autorizzando il Tesoro a intervenire per l’intero importo della ricapitalizzazione.
Altri rumours e boatos che girano, e che possono fare molto danno, sono quelli relativi al coinvolgimento dei subordinati anche nella prossima maxi-ricapitalizzazione di Unicredit. E qualcosa di simile per puntellare il capitale delle due banche venete salvate da Atlante. Altro punto dolente è il quadro regolatorio: i banchieri italiani hanno già iniziato a levare alte grida di dolore per il timore che il Comitato di Basilea, il prossimo 29 novembre, possa mettere mano ad una revisione dei modelli interni di credito delle banche che porterebbe a nuovi buchi di capitale; poi c’è l’imminente adozione del principio contabile Ifrs 9, che introduce nuovi modelli statistici di previsione delle perdite su crediti, e che nasce come risposta al tardivo riconoscimento delle perdite su crediti durante la Grande Recessione. Ma tutto ciò rischia di produrre una ulteriore stretta creditizia, in un momento in cui le banche sono il settore meno appetibile per gli investitori. Questo il quadro a livello globale.
Riguardo all’Italia, nelle prossime settimane la Bce assegnerà alle nostre banche, poste sotto la sua supervisione, il target di capitale a cui tendere, ed il timore è che questa sia anche occasione per adottare una sorta di benchmark di copertura delle sofferenze, e che tale valore possa posizionarsi intorno al 70-80%, cioè quanto fu imposto esattamente un anno fa alle quattro banche risolte. A questo rosario di casini si somma anche il rialzo dei rendimenti obbligazionari che, partito dagli Usa post elezione di Donald Trump, è giunto in Europa e colpisce maggiormente i paesi ad “alto beta”, cioè quelli più rischiosi, il nostro su tutti. Due i canali di trasmissione della turbolenza: il rialzo del costo delle nuove emissioni di debito pubblico, che mette nei guai il bilancio pubblico italiano, già dissestato di suo; e l’abnorme peso dei titoli di stato in pancia alle banche italiane, che le colpisce sia come rischio paese che come minusvalenze da valutazione (mark to market). Oggi lo studio di una Sim italiana ipotizza un’erosione di 15 punti base ai parametri patrimoniali medi delle banche italiane in conseguenza del rialzo dei rendimenti sui Btp. Come essere assai facili profeti:
Se prosegue questo shock rialzista sui rendimenti obbligazionari, tra poco sentirete i pianti greci di governo e banchieri italiani
— Mario Seminerio (@Phastidio) November 14, 2016
E poi ci sono le quattro cosiddette good bank, per le quali non si sono ancora fatti avanti acquirenti, e che sinora stanno generando minusvalenze a livello di sistema per una cifra che dovrebbe ormai essere prossima ai 2 miliardi di euro. In breve, una tempesta perfetta che si approssima, e questa volta i capri espiatori saranno trovati fuori dalla Ue. Pensate quanti begli editoriali patriottici leggerete nei prossimi giorni, contro il Comitato di Basilea e le entità che stabiliscono i criteri contabili internazionali, che saranno accusati di voler affondare il nostro meraviglioso paese. Ciò detto, potete votare Si al referendum e pensare che tutte queste vulnerabilità esistenziali si risolveranno, e che le nostre banche diverranno improvvisamente molto attraenti per metterci capitale. E potete votare Si anche se non credete ai miracoli ma ritenete che la vittoria del No finirebbe col precipitare gli eventi verso la resa dei conti finale. Del resto, molti sostenitori del No sono convinti che la loro eventuale vittoria spalancherebbe le porte ad un radioso avvenire di ricostruzione del Paese. Ennesimo dilemma del prigioniero per un paese che passa il tempo ad autoingannarsi. Ma voi stringete i denti: prima o poi Deutsche Bank salterà.