Panetta alla ricerca del Sacro Eurobond

Il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, intervenendo ieri a Barcellona al Foro di dialogo Italia-Spagna, ha rilanciato il tema dello sviluppo della produttività su base europea, di fronte a dati sempre più desolanti del confronto tra Europa e Stati Uniti. E ha colto l’occasione per rilanciare il tema degli eurobond e del loro futuro, quando il PNRR sarà completato e inizierà il momento della restituzione dei fondi presi a prestito. Perché verrà anche quel momento, anche se ora molti fingono di ignorarlo, soprattutto in Italia. Ma andiamo con ordine.

Euro-decrescita infelice

Panetta ha richiamato i divari di crescita e produttività sui due lati dell’Atlantico, e direi che basta il colpo d’occhio:

Questo crescente divario determina il progressivo calo del peso europeo nell’economia mondiale. L’Europa è un formidabile normatore, e pare in effetti che la sua ambizione sia quella di normare il mondo che con essa ambisce a commerciare. Mentre si culla in questa illusione, perde di vista la sua progressiva sclerotizzazione sul piano dell’innovazione.

Osserva Panetta:

Negli ultimi dieci anni gli investimenti in ricerca e sviluppo effettuati dalle aziende europee sono stati circa il 60 per cento di quelli delle imprese statunitensi, con un divario crescente nel tempo.

A questo si aggiunge la sfavorevole composizione settoriale dell’attività di ricerca, che in Europa si concentra per circa il 30 per cento in settori maturi. Negli ultimi vent’anni le imprese in vetta alla classifica degli investimenti in ricerca e sviluppo appartengono per lo più al settore automobilistico, che oggi stenta a tenere il passo con l’innovazione più radicale dei concorrenti extra-europei.

Negli Stati Uniti invece sia le aziende sia i settori leader nella spesa in ricerca e sviluppo sono cambiati nel tempo. Se vent’anni fa erano i produttori di automobili, oggi sono le imprese dell’economia digitale e ad alta intensità tecnologica, tra le quali emergono di continuo nuovi attori, capaci in breve tempo di raggiungere dimensioni e capitalizzazioni molto elevate.

Attività di ricerca e sviluppo concentrata nel settore morente dell’industria, è drammatico. E si badi, morente non solo e non tanto per le scelte di elettrificazione che non decollano, visto che lo stesso accade negli Stati Uniti, bensì per scarsa comprensione che il futuro dell’automotive sarà sempre più nel software, fino al culmine della guida autonoma.

Ingenti risorse, soprattutto pubbliche

Panetta identifica tre cause del ritardo tecnologico europeo: insufficiente sfruttamento delle potenzialità dell’ICT (Information and Communications Technology); frammentazione delle attività di ricerca e sviluppo tra aziende, università e centri di innovazione di diversi paesi; scarsa integrazione tra il mondo scientifico e quello imprenditoriale, aggravata da rigidità amministrative e regolamentari. Lo stesso ritardo e marginalità sta emergendo per l’intelligenza artificiale.

Serviranno quindi ingenti risorse:

Secondo diverse analisi, la doppia transizione – verde e digitale – e il rafforzamento della difesa richiederanno complessivamente 800 miliardi di investimenti pubblici o privati aggiuntivi ogni anno fino al 2030.

Tali investimenti richiederanno un contributo congiunto pubblico-privato ma, secondo Panetta, sarà il pubblico a dover trainare:

In passato quattro quinti degli investimenti produttivi europei sono stati finanziati da privati, mentre la parte restante è stata realizzata dal settore pubblico. Tuttavia, è ragionevole attendersi un aumento della quota pubblica, poiché molti interventi – come la produzione di tecnologie innovative, la transizione digitale, la sicurezza energetica e la difesa – riguardano beni pubblici europei. Inoltre molti progetti, specialmente nelle fasi iniziali, presentano rendimenti bassi ed esiti incerti, rendendo cruciale il ruolo del settore pubblico per stimolare l’iniziativa privata. Un esempio storico è il progetto DARPA degli Stati Uniti, che dagli anni sessanta ha gettato le basi per lo sviluppo di internet.

Oggi, le risorse comuni europee sono rappresentate dal PNRR ma il programma terminerà (salvo proroghe, che ci saranno) nel 2026. Quindi, secondo Panetta, serve una capacità di bilancio comune per finanziare quelli che egli definisce beni pubblici europei.

Eurobond senza unione fiscale

Secondo il governatore, per ottenere ciò non serve una fiscal union né un ministro delle finanze europeo o meccanismi di trasferimenti sistematici tra paesi. Davvero? E come mai? Immagino perché la messa a fattor comune di risorse determinerebbe un effetto leva che la dimensione nazionale non consente, sgravando gli stati nazionali dal destinare spesa a investimenti domestici, soprattutto in ricerca. Attenzione alla fallacia nota come Piano Juncker, ricordate?

Inoltre, la creazione di un bilancio comune porterebbe finalmente a un titolo europeo privo di rischio (o presunto tale), come il Treasury americano, e un mercato secondario liquido che, secondo le stime di Panetta potrebbe abbassare il costo del debito di 20 punti base, oltre a fungere da benchmark per le emissioni private.

Per convogliare risorse pubbliche al settore privato, sarà poi fondamentale un mercato dei capitali non frammentato o frantumato, in grado di favorire lo sviluppo di private equity e venture capital. Al contempo, servirà il completamento dell’unione bancaria. Tutto molto lineare, se ignoriamo i problemi di integrazione che si chiamano interessi nazionali. Che saranno pure miopi, non lo discuto, ma esistono.

Torniamo a parlare del debito comune. Secondo Panetta sarebbe fattibile perché si partirebbe -ovviamente- da una base molto contenuta:

Se si decidesse di finanziare il 25 per cento di un piano di investimenti da 800 miliardi all’anno per sei anni, il debito comune europeo raggiungerebbe il 6 per cento del PIL della UE nel 2030. Includendo i titoli NGEU e altri programmi gestiti dalla Commissione europea, si arriverebbe al 10 per cento del PIL.

Verissimo, ma sarebbe debito che andrebbe a sommarsi a quello nazionale, e potrebbe correttamente essere trattato dai mercati come ad essi sovraordinato, generando turbolenze e attacchi speculativi ai debiti nazionali. I quali dovrebbero quindi essere posti su una stabile e più ripida china discendente per produrre un effetto di sostituzione, e Panetta lo segnala:

Il percorso appena descritto dovrà tenere conto di tre esigenze fondamentali: razionalizzare le risorse già destinate ai programmi comunitari; impegnare gli Stati membri con alto debito a migliorare i propri conti pubblici, al fine di evitare un eccessivo incremento del debito complessivo dell’Unione; garantire una gestione trasparente dei progetti comuni, assicurando che le risorse siano impiegate per aumentare la produttività e rendendo pienamente conto delle scelte effettuate.

Perché, se è vero che i paesi membri metterebbero a fattor comune europeo parte della spesa pubblica nazionale, è anche vero che ciò potrebbe non bastare, e di conseguenza mi pare di veder tratteggiato una sorta di patto di stabilità aggiuntivo, da sovrapporre a quello esistente, nella parte relativa alla riduzione del debito. Ma forse mi sbaglio.

Panetta chiama tutto ciò “productivity compact“, patto per la produttività. Diciamo che anche il termine “compact”, nella storia europea recente, non ha portato benissimo. Ed è anche difficile sfuggire alla sensazione che anche in questo caso ci sarebbero milestone, controlli preventivi e successivi e quant’altro, e l’iniziativa si impantanerebbe.

Eurobond in scadenza

Quindi, temo che l’ingegnoso tentativo di Panetta sia destinato a cadere nel vuoto. Ma c’è qualcosa che non cadrà nel vuoto: il rimborso dei fondi del PNRR, a partire dal ciclo di bilancio settennale che inizia nel 2028. Saranno pesanti oneri aggiuntivi, soprattutto per i paesi contributori netti al bilancio dell’Unione, come l’Italia. Che ha ricevuto sovvenzioni a fondo perduto per circa 70 miliardi, ma deve pur sempre restituire prestiti per 130 miliardi. Spalmati sino al 2058, è vero, ma sempre debiti aggiuntivi saranno.

Si porrà poi la necessità di non “far morire” il debito europeo, cioè le obbligazioni emesse per finanziare il PNRR. Già oggi tali obbligazioni non entrano nei benchmark internazionali, forse perché considerate entità effimere e destinate a estinzione col rimborso. Questa situazione concorre a renderle meno liquide, cioè a rendere più di molti titoli di stato nazionali, a parte quelli italiani. E questo è uno degli ulteriori disincentivi all’emissione.

Ecco perché ho l’impressione che, anche in conseguenza al rinvio della scadenza del 2026 sui lavori del PNRR, che considero certa, leggeremo proposte per rinnovare il debito comune. Credo che lo stesso Mario Draghi abbia suggerito questa ipotesi. In un momento in cui i governi europei sono condizionati da sovranismi che tendono a tenere risorse “in house” e non certo ad aumentare la quota di risorse comuni europee, credo che il rinnovo degli eurobond da PNRR sia una sorta di esito necessario. Ma che non per questo ci condurrà alla terra promessa, perché non saranno risorse aggiuntive.

Sostieni Phastidio!

Dona per contribuire ai costi di questo sito: lavoriamo per offrirti sempre maggiore qualità di contenuti e tecnologie d'avanguardia per una fruizione ottimale, da desktop e mobile.
Per donare con PayPal, clicca qui, non serve registrazione. Oppure, richiedi il codice IBAN. Vuoi usare la carta di credito o ricaricabile, in assoluta sicurezza? Ora puoi!

Scopri di più da Phastidio.net

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continua a leggere

Condividi
Your Mastodon Instance