Boom di contratti precari: sicuri che il Jobs Act sia stato un successo?

So che siete stanchi del dibattito sull’attribuzione dei meriti per la creazione di occupazione in Italia: lo sono anch’io, quanto e più di voi. Ma penso sia comunque utile valutare il fenomeno e contestualizzarlo nel quadro della ripresa congiunturale europea, che è innegabile e discretamente vigorosa. Poi, la politica è l’arte delle correlazioni spurie, come noto. E allora leggiamo il dato sul mercato italiano del lavoro in agosto, e facciamoci qualche domanda.

Dai dati Istat vediamo che il numero di occupati dipendenti aumenta in un anno di 417 mila unità ma di queste solo 66 mila sono a tempo indeterminato. Che si può dire di un sistema economico che produce l’85% di nuova occupazione sotto forma “precaria”? Soprattutto, come commentare questo dato con i pestoni sulla grancassa per il Jobs Act “che funziona”? Perché, se non vado errato, l’idea cardine del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti era proprio quella di fare aumentare questa tipologia di contratti rispetto al tempo determinato. Voi lo ricordate, vero? Ricordate i proclami di Matteo Renzi in materia? Ecco, ora quei proclami sono mutati all’enfasi sul numero assoluto di impieghi creati, purchessia. Che, a lume di logica, con la ratio politica del Jobs Act nulla c’entra.

Servirebbe chiedersi  il motivo di questo successo senza precedenti del tempo determinato nei rapporti di lavoro, che giunge proprio quando tutti o quasi si attendevano l’ascesa del tempo indeterminato (sia pure senza la protezione dell’articolo 18). Ricordiamo questa frase di Renzi:

«Io ho visto la mia generazione combattere contro il precariato, la mia generazione circondata dalla precarietà. Con il jobs act ci sono tutele in più, ci si può permettere il lusso di un figlio, un mutuo» (Ansa, 1 settembre 2015)

Ecco, a me piacerebbe ascoltare o leggere una riflessione, alla luce di questa dichiarazione “programmatica” di un paio d’anni addietro e del fatto che nell’ultimo anno solo il 15% degli impieghi sono stati “posti fissi” (si fa per dire). Perché la questione non è di lana caprina, e perché in Italia si sta forse verificando una mutazione genetica che porta in direzione esattamente opposta alla motivazione per la quale è stato creato il Jobs Act, cioè combattere il dualismo del mercato del lavoro. E perché prima o poi qualcuno potrebbe alzare la mano e dire: “scusate, ma allora il dualismo tra insider protetti ed outsider condannati alla precarietà non era causato dall’articolo 18″. E questa constatazione arriverà, se già non è arrivata. Allo stesso modo in cui risultano insoddisfacenti le spiegazioni “quattropuntozero” in cui si sostiene che analizzare il lavoro classificandolo tra tempo determinato ed indeterminato è tassonomia inadeguata ed obsoleta, “perché oggi sta cambiando tutto”. Sta certamente cambiando tutto ma forse servirebbe comprendere che il tempo determinato è in essenza l’antitesi dell’accumulazione di capitale umano in azienda. Siamo d’accordo su questo, almeno?

Che dovremmo inferire dalla tendenza in atto, quindi? Che la base occupazionale italiana è sempre più ridotta a “materia prima”, nel senso che alle aziende basta avere organici a fisarmonica, il cui livello cioè varia in funzione di quello dell’attività aziendale, esattamente come si fa con le scorte? Sarebbe utile, ad esempio, sentire su questo tema la valutazione degli economisti consiglieri di Palazzo Chigi. Se la spiegazione per questo dilagare del tempo determinato è da ricondurre al vantaggio economico, che persiste rispetto al tempo indeterminato riveduto e corretto dal Jobs Act, forse la soluzione non è quella di aumentare l’onerosità dei contratti temporanei (come qualcuno ha proposto, anche per appuntarsi al petto l’agognata medaglietta de sinistra) bensì quella di ridurre quella del tempo indeterminato. Ma pare che queste constatazioni siano piuttosto stravaganti, in un paese come l’Italia.

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