Nuova sassata nella piccionaia della politica italiana. La lancia con voluttà il ministro dell’Economia e delle Finanze, Giancarlo Giorgetti, intervistato da Bloomberg durante un forum italiano dell’agenzia di stampa statunitense. A onor del vero, Giorgetti si è espresso in modo confuso, mettendo presumibilmente in difficoltà che lo intervistava. Ci saranno sacrifici per tutti, ha premesso Giorgetti, calatosi nelle vesti di una specie di Churchill della contabilità pubblica. E ancora: la nostra stella polare è l’articolo 53 della Costituzione, l’assai citato articolo che parla di progressività e contributo alle casse pubbliche secondo la capacità di ognuno.
Costituzione soggettiva
Che è articolo, detto incidentalmente, che non appare troppo compatibile con la flat tax sugli autonomi, che rappresenta invece la stella polare del partito a cui Giorgetti appartiene. Ma tassare cosa, e come? Forse si parla di extraprofitti, il sarchiapone della politica italiana, così abile a lanciare termini che restano privi di definizione? Cosa sarebbe un extraprofitto? Una rendita da imperfezione di mercato, che come tale va corretto? Oppure (più probabile, dato il contesto) un utile superiore alla media storica e alle fasi del ciclo economico?
Giorgetti precisa: “Non è corretto parlare di extraprofitti, ma di tassare i profitti a chi li ha fatti: è uno sforzo che l’intero Paese deve sostenere, ovvero individui, ma anche società piccole, medie e grandi”. E ci aggiunge anche che è inutile parlare di contributi volontari da parte delle imprese, come invece grottescamente si è iniziato a fare e come pare “qualcuno” voglia effettivamente portarsi a casa.
Dopo il parapiglia che ha fatto seguito alle criptiche parole di Giorgetti Nostradamus, arriva la velina esegetica dal Mef:
Per le entrate si chiederà uno sforzo alle imprese più grandi che operano in determinati settori in cui l’utile ha beneficiato di condizioni favorevoli affinché contribuiscano con modalità sulle quali è in corso un confronto. Non è allo studio nessuna nuova tassazione per gli individui mentre le aziende più piccole sono già interessate al concordato biennale. Altre interpretazioni delle parole del ministro sono da considerarsi forzature.
Quindi, vediamo: “imprese più grandi” pare usare come discriminante i ricavi (o il totale dell’attivo), filtrandolo però con una redditività che ha “beneficiato di condizioni favorevoli”. Nel corso dell’intervista, Giorgetti ha fatto degli esempi (non necessariamente operativi), come l’industria della difesa e degli armamenti e, indietro nel tempo, le assicurazioni che hanno beneficiato anni addietro del blocco Covid della circolazione. Però “è in corso un confronto”; che pare quindi tornare sul concetto di elargizione e non di imposizione. Mistero.
Tra utili e ricavi
Soprattutto, Bloomberg ha trascritto questa frase:
“It means taxing profits made and revenue earned, and it is an effort that the whole country must undertake which means individuals, but also small, medium and large companies”
Cioè, tassare i ricavi, ministro? Sicuro?
Si potrebbe ipotizzare che Giorgetti pensi a una sorta di progressività dell’Ires, l’imposta sulle società di capitali. Il che sarebbe un incentivo all’elusione oltre che un disincentivo alla crescita dimensionale (se parliamo di utili in valore assoluto e non in proporzione di attivo o capitale proprio). Ma soprattutto sarebbe assai buffo avere un’Ires progressiva mentre il partito di Giorgetti vede “imposte piatte” dappertutto, nei suoi sogni bagnati.
Tra le altre cose, Giorgetti ne ha avute anche per gli autonomi, alle prese col concordato preventivo rapidamente diventato condono successivo: devono abituarsi all’idea di pagare più tasse rispetto al passato. E quanto al passato, già che ci siamo, gli regaliamo un enorme sconto sul nero che fu. Giusto, ministro?
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Quindi, niente: resteremo con la curiosità sin quando la legge di bilancio non inizierà il suo iter parlamentare. Il punto vero è un altro, al netto delle imbarazzanti performance oratorie e dialettiche di un ministro pro tempore, il più importante dell’esecutivo: si opera in un contesto di risorse sempre più scarse, al margine. Ma questo margine è un argine che sta cedendo: per reggere la spesa pubblica su questi livelli, e incrementarla per finalità elettorali, serviranno sempre più entrate, sino al punto di rottura.
Una rottura a cui contribuisce il tentativo di esonerare dalla contribuzione fiscale il nucleo centrale del proprio elettorato di riferimento, al massimo chiedendo a quest’ultimo degli oboli sotto forma di sanatorie e condoni. Che tuttavia o diventano ricorrenti oppure non reggono un quadro di spese permanenti e sempre più pesanti.
Mi chiamo Messina, risolvo problemi
Subito dopo Giorgetti, al forum Bloomberg ha preso la parola il Ceo di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina. Che ha ribadito che il governo deve ascoltare le imprese e studiare con loro modi per sostenere la finanza pubblica, senza colpire i bilanci aziendali. Una sorta di immacolata contribuzione, quindi. Ma come? Riportiamo quanto scritto da La Stampa, sperando non sia il solito virgolettato all’italiana, cioè apocrifo:
«Ci possono essere alcuni modi in cui contribuire alla situazione del debito pubblico senza avere impatti sui conti delle società» evidenzia il ceo di Intesa Sanpaolo, come ad esempio «lavorare sulle attività fiscali differite, fornire dei flussi di cassa al settore pubblico». Per rendere ancora più chiaro il messaggio, aggiunge: «In questo momento chi è nelle condizioni di fare utili significativi può pensare o di alzare i salari, e in questo modo migliorare la situazione sociale e il Pil, o trovare soluzioni con il governo per migliorare le condizioni del debito pubblico del Paese, non necessariamente con la tassazione»
“Fornire flussi di cassa al settore pubblico”, vuol dire fargli delle anticipazioni, anche di imposte. Che tuttavia, sono anticipazioni e non si vede come possano incidere sul debito. In questi giorni i giornali scrivono di “intervento sulle stock option dei manager bancari”, e quindi via all’eccitazione popolare contro i ricchi. In realtà, si tratterebbe solo di rallentare la deducibilità fiscale per le banche di tali stock option: non più costante ma differita al termine del periodo di fruizione. Non intacca l’ultima riga del bilancio delle banche. Più tasse ora, meno tasse in futuro.
Poi c’è il “momento Cucinelli”: chi ha profitti, alzi gli stipendi e tutto seguirà, con più consumi. Ottimo, come fatto dalle banche nell’ultimo rinnovo del contratto nazionale, quindi. Che però è avvenuto a certificare condizioni eccezionali di redditività, e comunque le banche hanno modo di recuperare quel maggior costo del lavoro sia con digitalizzazione e gestione del turnover sia con “ritocchi” alle condizioni alla clientela. Ma transeat.
Mi affascina soprattutto questo: “Trovare soluzioni con il governo per migliorare le condizioni del debito pubblico del Paese, non necessariamente con la tassazione”. Attendo di capire come possa avvenire questa immacolata contribuzione. Forse col famoso piano di valorizzazione degli immobili pubblici, tanto caro a Messina? Attendiamo. Di certo, la neolingua sembra aver trovato il modo di ipnotizzare la politica e il pubblico promettendo “contributi” che non sono tasse.
Ma non attendiamo di uscire indenni dalle follie di spesa pubblica degli ultimi anni.
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