Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, audito il 25 novembre dalla commissione parlamentare sull’attività degli enti gestori di forme previdenziali, ha ritenuto di dover tirare le orecchie ai neghittosi fondi pensione per il loro limitato investimento nel patrio Btp. Ci sono “spazi di miglioramento”, ha detto Giorgetti, riferendosi all’impiego delle risorse di enti previdenziali e fondi pensione.
Quanta Italia per le pensioni
Oggi in Italia, secondo i dati Covip, sono attive 302 forme pensionistiche complementari, di cui 33 fondi pensione negoziali, 40 fondi pensione aperti, 68 piani individuali pensionistici di tipo assicurativo “nuovi” e 161 preesistenti. A queste forme previdenziali integrative partecipano quasi dieci milioni di persone. Le risorse complessive destinate a prestazioni erano, a settembre 2024, pari a 238 miliardi di euro.
Come riportato da MF con grassetto mio per evidenziare lo zelo governativo della testata,
Gli investimenti delle forme pensionistiche complementari hanno raggiunto quota 189 miliardi, con troppa poca attenzione dedicata all’Italia. Oltre la metà degli investimenti della previdenza complementare (56%) sono infatti destinati all’acquisto di obbligazioni, per un totale di 105,8 miliardi, di cui 73 miliardi per i titoli di stato: poco meno di 27 miliardi sono italiani, pari al 14,1% degli investimenti complessivi.
Quindi, vediamo: oltre metà degli investimenti dei fondi pensione sono in strumenti a reddito fisso, di cui quasi tre quarti in titoli di stato. Ma attenzione: di questi ultimi, sono italiani “solo” 27 miliardi, cioè circa un terzo della classe di attivi obbligazionari. Di fronte a questa diversificazione, che a me pare eufemisticamente migliorabile, nel senso che i titoli di stato italiani restano sovra-rappresentati, Giorgetti inarca il sopracciglio.
A Giorgetti non basta
Va bene la diversificazione, spiega, ma questo è “un aspetto che va tenuto sotto osservazione”. Addirittura. Come si direbbe di un potenziale problema in corso di incubazione. Forse perché è la tendenza che inquieta il ministro visto che, nel quinquennio 2019-23, l’incidenza degli investimenti in titoli nazionali è diminuita di oltre otto punti percentuali, dal 29 al 20,7 per cento, scontando in particolare la riduzione degli impieghi in titoli di Stato.
Malgrado ciò, come detto, i titoli di stato domestici restano il principale (o il secondo) attivo delle forme pensionistiche complementari e degli enti di previdenza. Ancora da MF:
Nel complesso gli investimenti domestici delle forme pensionistiche complementari – titoli emessi da residenti in Italia, compresi quelli di stato, e immobili – arrivano a 36,6 miliardi. Quanto agli enti di previdenza, gli investimenti nell’economia italiana sono stati 44 miliardi, il 38,5% del totale e il 2,9% in più sul 2022. La classifica in questo caso è invertita: gli investimenti immobiliari prevalgono (17 miliardi di euro, il 14,9%) seguiti a stretto giro dai titoli di Stato (13,8 miliardi, il 12,1%).
Tirando le somme, l’investimento sull’Italia, mobiliare e immobiliare, resta ampiamente sopra il 30 per cento. Ma a Giorgetti pare poco. L’obiettivo del ministro e della maggioranza, ma direi di tutta la politica nazionale, è quello di agire verso due direttrici. La prima, è quella di fare in modo che fondi pensione ed enti di previdenza continuino ad avere grande capacità di assorbimento del debito pubblico nazionale. La seconda, che i medesimi destinino quote crescenti di risorse all’alternativo illiquido nazionale: private equity, private debt, venture capital e infrastrutture.
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C’è un piccolo problema a questa asset allocation autarchica: le uova nello stesso paniere. Riempire di Btp la previdenza complementare e le casse ordinistiche espone a rischio di catastrofici esiti, in caso accadesse qualcosa al nostro debito pubblico. Discorso analogo per l’investimento alternativo illiquido in attività domestiche con l’aggiunta, appunto, della illiquidità. Che per enti che devono ogni mese pagare prestazioni in denaro, rischia di essere un problema.
Rischio frittata
Naturalmente, esistono numerose strade intermedie, ma sempre nel solco della prudente diversificazione geografica e di monitoraggio della liquidità del portafoglio. Giorgetti promette “l’introduzione di un’imposizione sostitutiva agevolata anche per gli enti previdenziali (magari del 20 per cento, come quella prevista per i rendimenti dei fondi pensione) o un intervento per trattare in maniera diversa chi investe capitali pazienti nel sistema Paese”. E va bene, anche se non è chiaro dove prenderebbe i soldi delle agevolazioni. Forse arrivando ad azzerare le detrazioni fiscali agli spregevoli ricchi sopra i 75 mila euro che non si sono riprodotti, secondo il promettente filone aperto con la legge di bilancio 2025? Ah, saperlo.
Quello che invece non possiamo fingere di non sapere è che tutte le uova nello stesso paniere aumentano il rischio di una colossale frittata carbonizzata. E soprattutto, sarebbe opportuno che la politica non si illudesse: come le famiglie, anche gli enti previdenziali e i fondi pensione correrebbero a liberarsi dei titoli di stato, se vi fossero minacce sostanziali. Non è difficile da capire, almeno credo.



