Ora che gli Stati Uniti hanno un’amministrazione di crypto-entusiasti, servono aggiornamenti periodici per cercare di capire quale grado di diffusione nel sistema economico e finanziario avranno le criptovalute e di conseguenza monitorare il loro potenziale sistemico.
In attesa che gli americani costituiscano una riserva strategica di bitcoin, segnaliamo che il medesimo sta arrivando nelle fondazioni universitarie e nei loro fondi di dotazione. L’Università di Austin, Texas, ha annunciato la creazione di un fondo da 5 milioni di dollari sui 200 totali della dotazione, per investire in bitcoin con un orizzonte temporale di almeno cinque anni. In precedenza, la Emory University di Atlanta aveva comunicato di possedere bitcoin per 15 milioni di dollari, attraverso un Etf.
Ma sono state le maggiori università a investire nella tecnologia sottostante il bitcoin: nel 2018, il fondo di dotazione di Yale ha investito in due fondi di venture capital attivi sulle criptovalute. Ma se, in quei tempi, la motivazione era ancora la sperimentazione di una nuova tecnologia, eternamente promettente (la blockchain), oggi le adozioni avvengono per ragioni assai più venali: l’andamento del prezzo del bitcoin e di altre criptovalute e la paura di perdere il treno (FOMO, fear of missing out). Anche se, ovviamente, ci sono sempre tesorieri che ammantano l’acquisto dietro motivazioni legate alla “digitalizzazione della società”. Abracadabra.
Gli imitatori di MicroStrategy
Ma è nel settore privato che il bitcoin sta fatalmente facendosi strada per finalità peculiari: sostenere i conti aziendali. Il battistrada è stato MicroStrategy, che oggi si chiama solo Strategy in attesa di chiamarsi Mega (o MAGA) Strategy, che raccoglie fondi attraverso aumenti di capitale “a rubinetto” e soprattutto emissione di obbligazioni convertibili a tasso zero, e usa quei fondi per comprare altri bitcoin, mettendo a leva la sua posizione.
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Finora è andata molto bene ma la strategia ha in sé i germi dell’autodistruzione, come facilmente intuibile. Ma sta stimolando non pochi imitatori, che destinano all’acquisto di bitcoin parte della liquidità libera aziendale, se presente. Secondo dati della compagnia di cryptosecurity Coinkite, oggi nel mondo sarebbero 78 le aziende quotate in borsa che hanno investito in bitcoin parte della tesoreria.
Il Financial Times ha illustrato tra gli altri il caso di KULR Technology, una azienda a bassa capitalizzazione specializzata in gestione termica, fornitrice di NASA e US Navy, i cui vertici hanno deciso di investire in bitcoin fino al 90 per cento del surplus di cassa, anche per rivitalizzare quotazioni stagnanti. Inizialmente l’annuncio ha pagato, ma oggi la quotazione appare in vistoso ripiegamento dai massimi, pur se ancora molto sopra ai livelli precedenti l’annuncio della strategia.
Altre aziende hanno fatto ricorso all’investimento in bitcoin per combattere i venditori allo scoperto, come è il caso di OneMedNet, azienda che fornisce clinical imaging. Il problema di queste scelte è che finiscono per snaturare l’oggetto sociale, scegliendo una apparentemente allettante scorciatoia in alternativa alla creazione di valore per gli azionisti a mezzo di investimento oppure di restituzione del capitale in eccesso.
I cambiamenti del quadro normativo spingono questi esiti. Il Financial Accounting Standards Board (FASB) ha disposto che le posizioni in criptovalute siano valorizzate ai corsi di mercato (fair market value) e che la loro variazione entri nel reddito netto aziendale in ogni reporting period, tipicamente il trimestre. Va da sé che, sin quando i prezzi sono in ascesa, le aziende brindano. Quando la tendenza si inverte, a voi le conclusioni.
Altro elemento di facilitazione dell’adozione delle criptovalute è la disposizione che ha abolito l’obbligo per le banche di effettuare accantonamenti di capitale sui bitcoin detenuti per servizio di custodia. Misura che palesemente indicava l’avversione della SEC di Gary Gensler all’adozione delle criptovalute. Pare passata un’era geologica.
Una “malattia olandese” dalle criptovalute
È tuttavia evidente che il ricorso alle criptovalute come investimento aziendale rischia di produrre quella che, in manifattura, divenne nota come “malattia olandese“: la scoperta di grandi giacimenti di idrocarburi che finì a spiazzare industria e agricoltura. Nel caso del bitcoin, le risorse investite in esso sono, come detto, sottratte a investimenti nella gestione caratteristica e alla distribuzione agli azionisti, che inizialmente possono anche essere entusiasti della decisione. Almeno sin quando le quotazioni del bitcoin continuano a salire. Ricordiamo che MicroStrategy era una software company; attualmente in essa questa attività ha un ruolo pressoché simbolico, oltre a generare perdite operative.
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Le somme sono presto tirate: l’estensione dell’adozione delle criptovalute al sistema produttivo spiazza utilizzi alternativi delle risorse e trasforma le aziende interessate in zombie ad alta volatilità potenziale. In parallelo, l’aumento del coinvolgimento del settore finanziario nelle criptovalute aumenta il potenziale sistemico di quest’ultime, cioè il rischio che fallimenti da esse indotti si propaghino all’economia reale. Attendiamo che Trump proceda alla creazione della riserva strategica nazionale di bitcoin, quella che può riuscire dove hanno fallito i Brics: abbattere il regno del dollaro.



