Una bomba di debito: scadenze lunghe e miccia corta

Come ormai dovrebbe essere noto a chiunque, il mondo scricchiola sotto il peso del debito pubblico dei paesi sviluppati. I mercati stanno da tempo esprimendo un giudizio sfavorevole sulle lunghe scadenze, aumentandone i rendimenti con un movimento che gli addetti ai lavori chiamano “bear steepening“, irripidimento ribassista, dove il ribasso è riferito al prezzo dei bond, che è in relazione inversa al rendimento.

Questo movimento è presente pressoché ovunque. In modo piuttosto pernicioso in Giappone ma anche in Eurozona, Regno Unito e, ovviamente, Stati Uniti. Questi ultimi alle prese con una legge di bilancio che aumenta deficit e debito: secondo il Congressional Budget Office, subito liquidato dalla pittoresca addetta stampa di Trump come entità “che si sbaglia spesso”, e presto credo marchiato come cricca di golpisti a cui tagliare risorse e da deportare in Salvador, nei dieci anni canonici di orizzonte di previsione, Il Big Beautiful Bill aggiungerà ben 2.400 miliardi di dollari di deficit.

Via dal debito a lunga scadenza

Le aste su scadenze lunghe e ultra-lunghe di debito pubblico mostrano una crescente disaffezione da parte degli investitori. L’ultima asta del governativo trentennale giapponese ha evidenziato le peggiori metriche di sottoscrizione degli ultimi due anni ma i rendimenti, dopo l’annuncio, sono diminuiti perché ci si attendeva di peggio. Come abbiamo visto, in Giappone è in corso uno “sciopero” della domanda di debito ultra-lungo. O meglio, le fonti di quella domanda si sono inaridite perché la banca centrale ha finalmente preso atto che comprarsi tutto il debito pubblico causa non lievi problemi alla fisiologia del mercato e gli assicuratori sono entrati agevolmente nei limiti statutari di solvibilità e stanno pure avventurandosi nell’azionario.

Ma anche altrove i segni di questa disaffezione nei confronti delle scadenze lunghe e lunghissime sono evidenti: Australia e Corea del Sud, ad esempio. Nel frattempo, Nouriel Roubini, che aveva criticato la policy di emissioni di debito seguita da Janet Yellen, che aumentava le scadenze corte e cortissime anche per non andare contromano mentre la Federal Reserve vendeva la parte lunga della curva, ha scoperto che anche il successore di Yellen, Scott Bessent, fa lo stesso e anche oltre.

Un paper dello scorso anno in cui Roubini aveva come co-autore Steven Miran, il bizzarro economista-Stranamore divenuto capo dei consiglieri economici della Casa Bianca e che pensa di curare il deficit commerciale americano tassando gli investitori in Treasury, per vedere di nascosto l’effetto che fa, definiva questa riduzione tattica delle scadenze del debito pubblico come “Activist Treasury Issuance“.

E Bessent, smessi i panni del fustigatore della Yellen, addirittura ipotizza che, se le condizioni di mercato dovessero diventare disordinate sulle scadenze lunghe e molto lunghe, il Tesoro potrebbe intervenire con programmi di concambio, cioè ricomprare il debito a scadenza lunga usando i soldi dell’emissione di quello a scadenze brevi e brevissime.

Scadenze più brevi, debito più rischioso

Il che, come intuirebbe anche un non addetto ai lavori, determinerebbe la riduzione della scadenza media del debito pubblico e sarebbe anche un segnale di forte aumento di rischiosità del debitore, costretto a rinnovare quantità crescenti di passività in tempi ravvicinati. Un altro tratto da mercato emergente dei tempi che furono.

Come finirà, quindi? Per Roubini, questa dinamica di gestione attiva e “attivista” della curva dei rendimenti pubblici è ormai diventata una “dipendenza”. Vero, ma dipendenza dalla incapacità di comprimere i deficit e piegare il debito. E vediamo che questa situazione è ormai di tutta evidenza anche in Eurozona, con un crescente numero di paesi entrati o rientrati in procedura per deficit eccessivo. Tra essi, spicca la ex frugale Austria, peraltro nel suo terzo anno di recessione e che sta scoprendo di avere un welfare troppo costoso per la sua capacità di generazione di risorse fiscali.

Di situazioni del genere si alimentano i populismi, che chiedono più spesa sociale e meno tasse, altrimenti si incazzano contro gli immigrati. E i governi sono manifestamente e non infondatamente timorosi che, tassando i ricchi veri, oltre a non produrre il quantitativo di risorse necessarie, si produrrebbe invece la loro fuga, con capitali al seguito. Il combinato disposto di questa situazione è il principale alimentatore dei deficit.

Tutto quello che possiamo al momento concludere, quindi, è che i Tesori nazionali ridurranno le emissioni a scadenza lunga e lunghissima, per far scendere la febbre ai loro rendimenti. I mercati dovranno valutare se le condizioni di finanza pubblica e l’andamento di deficit e debito sono tali da coesistere con scadenze medie destinate ad accorciarsi. Oppure no, e quindi a scatenare attacchi speculativi sui soggetti percepiti come maggiormente devianti.

Il mondo, soprattutto quello sviluppato, sta scoprendo che i tempi sono cambiati e che i rendimenti non torneranno negativi o nulli. E che l’oneroso servizio di un debito torreggiante sta divorando gli altri capitoli di spesa pubblica. Chi sta invece tornando ai tempi di deflazione e rendimenti negativi, la Svizzera, beneficia delle sue “peculiarità” di paese-rifugio dei flussi di capitale e del suo pervicace conservatorismo fiscale.

Va da sé che, se questo scenario di disordine fiscale dovesse generalizzarsi e la palla di neve minacciare di travolgere gli stati, e se gli stati nazionali decidessero di dare l’assalto alle banche centrali per costringerle all’obbedienza e a collaborare alla repressione finanziaria, si aprirebbero nuove forti correnti di domanda per oro e bitcoin, quest’ultimo ormai istituzionalizzato (finché dura) come bene rifugio.

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