Sblocca stipendi, il Superciuk rossoverde

Nei giorni scorsi, Alleanza Verdi Sinistra (AVS) ha presentato un proposta di legge, ribattezzata “Sblocca stipendi”, che punta a reintrodurre la scala mobile delle retribuzioni, conguagliando l’inflazione programmata prevista dal Documento di finanza pubblica, se inferiore alla media dell’indice dei prezzi al consumo armonizzati, e sterilizzare il fiscal drag prodotto da tale conguaglio.

La premessa è la lotta alla perdita di potere d’acquisto degli stipendi, lo strumento è stantio e controproducente. Nel testo della proposta di legge:

Il rapporto mondiale sui salari 2024-2025 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro chiarisce la profondità storica dell’emergenza: in un arco temporale di 17 anni, ovvero a partire dal 2008, l’Italia ha subito le perdite maggiori in termini di potere d’acquisto dei salari; tra i paesi a economia avanzata del G20, infatti, le perdite di salario reale sono state dell’8,7% in Italia, del 6,3% in Giappone, del 4,5% in Spagna e del 2,5% nel Regno Unito.

E anche:

Il Rapporto ISTAT 2025 e quello dell’OCSE sulle “Prospettive occupazionali” (2025) fotografano invece l’emergenza nella sua impietosa e stringente attualità. Secondo l’ISTAT, considerando il periodo da gennaio 2019 alla fine del 2024, la crescita delle retribuzioni contrattuali è stata pari al 10,1%, a fronte di un aumento dell’inflazione pari al 21,6%. Secondo l’OCSE, l’Italia ha registrato il calo più significativo dei salari reali tra tutte le principali economie dell’OCSE; nonostante ci sia stato un aumento importante nell’ultimo anno, all’inizio del 2025 i salari reali erano ancora inferiori del 7,5% rispetto all’inizio del 2021.

Il problema, inutile negarlo, esiste. Come esiste il rischio di un progressivo aumento della quota dei lavoratori poveri, i working poor. Anche se, come abbiamo visto, l’aumento dei nuclei familiari non monoreddito contrasta questa tendenza in modo probabilmente sottostimato nel dibattito pubblico. Se è vero che gli standard di vita di un paese sono legati alla dinamica della sua produttività, è altresì vero che l’aumento di produttività deve essere distribuito anche al lavoro, e non fermarsi al capitale. E quello sarebbe compito della politica, così come porre le condizioni per far crescere la produttività.

A vulgata, vulgata e mezza

A parte queste considerazioni assai generali, la proposta di legge ritiene di identificare le radici di questa perdita di potere d’acquisto non tanto nell’andamento della produttività o nella struttura dei contratti collettivi, che sono o dovrebbero essere preposti a redistribuirne gli aumenti, bensì nell’assenza di salario minimo legale (yawn), nel ritardo del rinnovo dei contratti collettivi e nella proliferazione dei cosiddetti contratti pirata. In pratica, gli ambiziosi e analitici esponenti di AVS scambiano i sintomi per le cause della malattia. Non me ne stupisco.

In attesa di un provvedimento legislativo che intervenga su rappresentanza sindacale, salario minimo legale e perimetro della contrattazione, scrivono i firmatari, è urgente introdurre l’indicizzazione dei salari. Partiamo dal tetto, quindi: le fondamenta, come l’intendenza napoleonica, seguiranno. E qui i firmatari si lanciano in dotte elaborazioni teoriche:


Inoltre, contro la vulgata che antepone la crescita della produttività del lavoro alle concrete possibilità di avanzamento salariale, si è sviluppata un’ampia letteratura scientifica che inverte il nesso causale tra le due variabili: solo una spinta salariale sostenuta può stimolare la crescita del prodotto e le innovazioni tecniche necessarie a garantire un adeguato ritmo di sviluppo della produttività. La crescita salariale, in tal senso, costituisce una “frusta competitiva” necessaria per orientare il tessuto imprenditoriale verso l’innovazione e l’efficienza. L’obiettivo del recupero del potere d’acquisto delle retribuzioni non può perciò essere vincolato e limitato da una bassa produttività: al contrario, può costituire un volano per il rilancio della produttività stessa.

Quindi: non bisogna aspettare di redistribuire la maggiore produttività ma stimolarla “dal basso” rendendo più costoso il lavoro. Mi verrebbe da dire: a vulgata, vulgata e mezza. A sinistra questo concetto della spinta produttivistica indotta dall’aumento degli stipendi è molto caro, praticamente una copertina di Linus. Le mie obiezioni restano le stesse, da sempre: se bastasse avere un elevato costo del lavoro per stimolare automazione e innovazione, l’Italia sarebbe il paradiso della tecnologia iperproduttiva di frontiera. È un po’ più complessa di così.

Taccio di tutte quelle situazioni in cui, in conseguenza di adozione di automazioni, si rende necessario per le aziende ridurre conseguentemente gli organici: ciò si traduce in vibrate proteste della sinistra politica e sociale, di solito.

Panetta dixit. Ma anche no

Piuttosto singolare è il modo in cui i firmatari liquidano il rischio che, col ritorno della scala mobile, si innesti una spirale prezzi-salari. Lo fanno andando a pescare una vecchia (febbraio 2024) citazione del governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta:

Oggi la probabilità che un ipotetico rafforzamento della dinamica salariale dia il via a una tardiva rincorsa salari-prezzi è esigua. Per di più, con pressioni inflazionistiche che volgono al ribasso e profitti delle imprese elevati, un qualche recupero del potere d’acquisto dei salari, dopo le perdite subite, è fisiologico e potrà sostenere i consumi e la ripresa dell’economia.

Ora, Panetta sosteneva questo circa un anno e mezzo addietro, quando (dati Istat) le imprese italiane in aggregato erano reduci da un notevole incremento degli utili, conseguenza del periodo pandemico. La conclusione di Panetta, basata su una sorta di ritorno alla media storica, oltre che sul buonsenso, era che tali profitti aggiuntivi avrebbero potuto essere redistribuiti ai lavoratori senza che ciò causasse rischi di spirale prezzi-salari e per recuperare la forte perdita di potere d’acquisto causata dalla fiammata inflazionistica post Covid.

Prendere una frase pronunciata in un preciso contesto temporale passato, e farla assurgere a principio eterno e immodificabile mi pare piuttosto naïf, non volendo accusare i firmatari di fare del cherry picking malizioso (o frutto di ignoranza, che ci può benissimo stare). Piuttosto, visto che ci stiamo tutti basando su dati Istat, vediamo come è oggi la situazione dei profitti delle aziende italiane.

Lo facciamo utilizzando la serie storica “Conto trimestrale delle Amministrazioni pubbliche, reddito e risparmio delle famiglie e profitti delle società”, aggiornato al primo trimestre di quest’anno, dati pubblicati lo scorso 30 giugno. In particolare, osserviamo la quota di profitto delle società non finanziarie, espressa in percentuale del risultato lordo di gestione sul valore aggiunto lordo delle società non finanziarie espresso a prezzi base.

Come vedete, il periodo pandemico e quello immediatamente post-pandemico rappresentano una oggettiva situazione di maggiore profittabilità delle sistema delle imprese italiane, che tocca il suo picco intorno alla metà del 2023. Il governatore Panetta si riferiva a questo fenomeno. Il suo invito ha trovato riscontro nei rinnovi dei contratti collettivi del periodo successivo. Non a caso, il governo Meloni mena vanto di una crescita delle retribuzioni superiore all’inflazione per l’ultimo biennio. Alcuni lavoratori (i bancari, ad esempio) sono stati più “fortunati” e hanno incassato il forte incremento di redditività del settore. Poi, che redditività faccia rima con produttività, non sarò io a darlo per scontato.

Come avrete intuito, prendere la frase di Panetta di quasi due anni fa e piantarla in mezzo al cielo per sostenere che una reintroduzione della scala mobile non determinerebbe alcuna spirale prezzi-salari, qui e ora, è un purissimo nonsenso. Anche se ci si sciacqua la bocca con la “letteratura scientifica”.

Ma questa abbuffata di profitti delle imprese italiane, quindi? Dai dati Istat non pare esserci, o meglio è stata riassorbita, anche con gli ultimi rinnovi contrattuali, verso i valori pre-Covid.

Nell’articolato della proposta di legge viene anche trattato il tema dei forti ritardi nel rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro. Un sintomo della malattia, non la causa, che verrebbe “curato” introducendo una “indennità di vacanza contrattuale” talmente punitiva da mangiarsi o limitare fortemente lo spazio negoziale tra le parti:

L’adeguamento ISTAT di cui al precedente comma 1 si applica, maggiorato del 50%, con le medesime modalità di corresponsione, anche ai contratti scaduti e sino alla decorrenza dell’accordo di rinnovo. Con riferimento ai soli lavoratori del settore privato, tale adeguamento verrà applicato all’ultima retribuzione globale annua di fatto, all’interno della quale verrà computata, anno dopo anno, anche la somma risultante dall’ultimo adeguamento.

Non manca, in coda alla proposta di legge, la copertura finanziaria. Che riguarda il maggior esborso sostenuto dalle pubbliche amministrazioni per la scala mobile integrale dei propri dipendenti. Si tassino di più le rendite finanziarie, orsù: dal 26 al 30 per cento. Bene, ma questo per far tornare i conti del settore pubblico. E quello privato, in caso “qualcuno” avesse problemi a reperire quei soldi? Ah beh, in quel caso si potrà sempre rilanciare con un ulteriore aumento del prelievo sulle rendite, per compensare gli imprenditori. Che problema c’è?

Proiettili d’argento elettorali

Che dire, quindi? Che questa proposta di legge, a cui ho dedicato decisamente troppo tempo ma solo perché mi incuriosiva il riferimento a Panetta, non ha basi economiche e rappresenta semplicemente l’esposizione, sul banchetto del mercatino della politica, di merce taroccata con cui prepararsi alla campagna elettorale dei prossimi due anni. Durante i quali ogni esponente del camposanto largo potrà rivendicare il proprio proiettile di finto argento: chi il salario minimo, chi la riduzione dell’orario di lavoro pagata dai contribuenti (“C’è stato l’esperimento in giro per il mondo, maestraaa!”), chi altre meravigliose idee che prenderanno (de)forma nei prossimi mesi.

Per quanto riguarda invece il tema e il problema, ribadisco il mio invito: riflettere sulla contrattazione collettiva nazionale. Se venisse decentrata a livello misto, aziendale e territoriale, ci sarebbe modo di introdurre il concetto di salario minimo, oltre che di creare le condizioni per beneficiare i lavoratori di imprese produttive. La super media del nazionale, pur se in minima parte attenuata da una contrattazione integrativa aziendale che resta ancillare per entità monetaria, è diventata elemento di oggettiva criticità per l’intero sistema.

Ma sono consapevole che non posso certo fare queste considerazioni a chi cerca di curare i sintomi o partire dal tetto per schiantarsi trionfalmente sulle fondamenta della realtà.

PdL Sblocca Stipendi 23 Luglio 2025 Per Deposito PDF by Mario Seminerio

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