Le addizionali moltiplicate sui soliti noti

Come noto, la propaganda politica resta centrata sulla “riduzione delle tasse”. E quanto più l’Italia si inviluppa in condizioni di non crescita e di crescente rischio di avvitamento del rapporto di indebitamento, che si verifica quando il costo medio del debito eccede la crescita nominale, più proliferano gli slogan sul “taglio di tasse”, meglio se al leggendario “ceto medio”, quello dell’omonimo dito mostrato a chi ancora crede a queste idiozie. Siamo ormai ben oltre il rito voodoo della riduzione d’imposte che si autoripaga: i testi delle rappresentazioni teatrali dei nostri eletti ormai non ne parlano più, dopo che la realtà ha mostrato l’assurdità del concetto anche a chi vive sotto una pietra. E, nell’attesa che si compia la beata speranza, la pressione fiscale aumenta.

Ma non ci si può comunque esimere dal mostrare all’orizzonte la terra promessa. Si cercano coperture che regolarmente non esistono, oppure sono semplicemente sostegni all’evasione. Nel frattempo, il fiscal drag fa il suo sporco lavoro e gonfia le entrate. Ma la politica finge di non avvedersene e prosegue con le richieste di “meno tasse per il ceto medio”. L’ultimo miraggio è il taglio dell’aliquota Irpef per chi ha redditi lordi sino a 50 mila euro annui, magari da spostare a 60 mila. E su questo si celebrano convegni per la felicità delle aziende di catering.

I soggetti assoggettati a spremitura costante li ho definiti kulaki, i contadini sovietici agiati e proprietari terrieri che, all’avvento della collettivizzazione, vennero definiti nemici dello Stato e finirono nei gulag. Nel contesto domestico italiano, possono essere definiti kulaki tutti i percettori di redditi che eccedono la “soglia del benessere”, posta a 35 mila euro lordi annui. A differenza della versione sovietica, non sono solo imprenditori ma soprattutto dipendenti, soggetti alla schiavitù del sostituto d’imposta. In massimo grado, sono quei soggetti che guadagnano cifre giudicate “eccessive” dal pauperismo nazional-popolare, spesso sono quadri e dirigenti aziendali che, come tali, vengono anche non di rado considerati i kapò dell’impresa e dell’imprenditore. Quindi meritevoli di rieducazione.

Il loro esproprio, come detto, si attua col fiscal drag e il sostituto d’imposta. Quest’anno il governo, alla ricerca di soldi, ha definito una nuova categoria di soggetti agiati in modo indecente: quelli con imponibile superiore a 75 mila lordi annui. Che, come tali, si sono visti taglieggiare le detrazioni fiscali. Ed è solo l’inizio, visto che non siamo ancora arrivati alle spese sanitarie.

Oggi parliamo delle fonti di pressione fiscale non statale, cioè le addizionali Irpef comunali e regionali. Lo facciamo grazie a un articolo di Marco Leonardi e Leonzio Rizzo, pubblicato sul Foglio. Leonardi e Rizzo hanno da tempo intrapreso una meritoria campagna di informazione e sensibilizzazione su quanto venga derubato il ceto medio impossibilitato ad evadere. Non che gli interessati non lo sappiano, per carità. Ma forse ribadire i concetti non guasta. Soprattutto, considerando i devastanti confronti delle curve Irpef tra Italia ed altri paesi europei coi quali ci confrontiamo, e che applicano aliquote marginali massime a partire da soglie di reddito che da noi verrebbero considerate la pistola fumante di arricchimento illecito da condotte criminose, e come tali da colpire senza pietà.

Amministrazioni locali a secco

Il punto: con le addizionali locali, chi ha un reddito superiore alla leggendaria soglia di 35 mila lordi annui, ed è dipendente, paga più tasse di prima. A causa del fiscal drag e delle addizionali comunali e regionali. Perché le amministrazioni locali vivono soprattutto di trasferimenti dallo stato centrale, i quali non sono indicizzati. Di conseguenza, sono costrette a mettere mano alle addizionali a causa della lievitazione delle spese correnti. Come documentato dagli stessi autori in un precedente articolo,

Il gettito dello stato è in gran parte dovuto all’IRPEF, che è un’imposta progressiva che si gonfia in modo meccanico in tempi di inflazione con il fiscal drag e all’Iva che anche essa aumenta con l’inflazione. Invece, le entrate correnti dei comuni sono dovute all’IMU seconde case e ad altre entrate (multe etc.), che non aumentano con l’inflazione, e soprattutto da trasferimenti dallo Stato che – per quanto riguarda il finanziamento dei servizi base dei comuni – non sono aumentati.

In sostanza, le amministrazioni locali sono a secco, essendo in gran parte prive di entrate proprie dopo che nel 2015 è stata cancellata l’Imu sulle prime case, e di conseguenza sono costrette a mettere mano alle addizionali. Quelle comunali hanno un tetto massimo pari allo 0,8 per cento, a parte Roma Capitale che lo ha allo 0,9 per cento. Quelle regionali partono da un minimo di 1,23 per cento e oggi arrivano al 3,33 per cento. Data la situazione, pare molto probabile che questi tetti verranno fatti saltare, più prima che poi. Entro tali limiti, le amministrazioni possono disporre una “progressività” dell’addizionale, con aliquote differenziate per scaglioni di reddito. Le ristrettezze locali sono tali che ormai si assiste a veri e propri abomini, come aliquote massime che a volte partono dall’opulenza di 28 mila ma con una ricca detrazione di 60 euro per redditi sino a 35 mila euro (qualcuno ha detto Lazio?). E poi ci sono le regioni-modello, più o meno immaginario, che non si fanno problemi a sanzionare i ricchi affamatori asociali con reddito da 50 mila euro.

Per mostrare l’entità del taglieggiamento, Leonardi e Rizzo citano i casi del professore ordinario e del ricercatore. Guardiamo il primo, che è oggettivamente un kulako:

Per il professore, lo stipendio al lordo dell’Irpef passa da circa 75.000 a 78.700 euro. Ma l’Irpef nazionale da pagare cresce del 6,18 per cento, quindi più dell’aumento dello stipendio. A questo si aggiunge un rialzo delle addizionali: +79 per cento regionale, +15 per cento comunale. Risultato? L’aliquota media complessiva (cioè la quota di reddito che finisce in tasse) passa dal 35,87 al 37,78 per cento, un incremento di quasi 2 punti percentuali: più della metà dell’aumento in busta paga viene così riassorbito dal fisco. La beffa è duplice, non solo si perde potere reale d’acquisto, ma si pagano più tasse di prima: cornuti e mazziati.

La strada verso l’inferno Irpef

Più chiaro, così? Il fiscal drag solleva il portafoglio, le addizionali locali lo tagliano in profondità. Ma non è finita, riguardo ai danni per i soggetti “agiati” e dipendenti: c’è pure lo zampino del regime forfettario. Quello che oggi arriva a ricavi sino a 85 mila euro annui. Vera follia che, tra le altre cose, rappresenta un potente incentivo distorsivo a restare sotto quella soglia, con le buone o con le cattive (i.e. evasione), oggettivo ostacolo all’aumento delle dimensioni di attività economica.

Che c’entrano i forfettari, direte voi? C’entrano, perché sono esenti dalle addizionali locali. Il che vuol dire che, procedendo lungo questa strada, lastricata dal combinato disposto di mancata indicizzazione all’inflazione degli scaglioni d’imposta e finanza locale non competitiva perché largamente derivata da quella centrale, ogni tentativo di allargare la platea dei forfettari, ormai su limiti di ricavo che gridano vendetta davanti al distratto dio dell’equità orizzontale e verticale, porterà al massacro dei dipendenti “agiati”. Però, ehi, stanno riducendo la pressione fiscale!

Così stando le cose, escludendo l’emigrazione, ai kulaki resta solo il voto per chi presenterà una piattaforma elettorale che insista in modo monomaniacale su questa sconcezza. Piuttosto che niente, meglio piuttosto.

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