La congiuntura globale, con un drammatico eccesso di capacità produttiva, mette il settore dell’acciaio e i governi nazionali di fronte a scelte comunque costose: gestire il ridimensionamento oppure amplificare i danni e la probabilità di rovina. L’Italia è in questo girone infernale con la ex Ilva. Che, come ho facilmente vaticinato, si accinge a scavare nei conti pubblici voragini di dimensioni multiple di quelle della ex Alitalia, vista la sua struttura di costi fissi e leva operativa.
Come siamo arrivati sin qui
Riassunto delle puntate precedenti: nella fulgida tradizione italiana di creazione di bad company che gemmano bad company, Acciaierie d’Italia è stata ammessa in amministrazione straordinaria il 20 febbraio 2024. Il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha nominato tre commissari straordinari: Giancarlo Quaranta, Giovanni Fiori e Davide Tabarelli.
Nell’agosto 2024, il governo ha avviato la procedura di vendita dell’intero gruppo attraverso un bando internazionale. La scadenza per le manifestazioni di interesse è stata fissata al 20 settembre 2024. Secondo il ministro Urso, sono pervenute 15 manifestazioni di interesse da parte di diversi attori nazionali e internazionali.
La scadenza per le offerte vincolanti, inizialmente prevista per novembre 2024, è stata successivamente prorogata al 10 gennaio 2025. Al termine del periodo, sono arrivate 10 offerte vincolanti, di cui solo tre per l’acquisizione dell’intero polo siderurgico: il consorzio azero Baku Steel Company con Azerbaijan Investment Company, l’indiana Jindal Steel International e l’americana Bedrock Industries.
Il 20 marzo 2025, i commissari straordinari hanno comunicato al MIMIT la richiesta di autorizzazione per avviare una negoziazione preferenziale con il consorzio azero guidato da Baku Steel. L’offerta degli azeri ammontava a oltre 1 miliardo di euro (500 milioni di valutazione magazzini più 600 milioni per l’acquisto degli impianti), con la promessa di investire altri 4 miliardi nei prossimi anni. Tuttavia, le trattative con Baku Steel hanno incontrato diverse difficoltà. Gli azeri avrebbero rallentato i negoziati a causa di resistenze territoriali per la realizzazione di un rigassificatore al largo di Taranto, considerato strategico per alimentare l’impianto.
Offerta problematica, certo non tale da suscitare entusiasmo ma imposta dai tempi. A differenza delle solite critiche pavloviane al governo Meloni, spintesi ad affermare che bisognava coinvolgere l’Italia e -nientemeno- l’Europa ed evitare “svendite”. Posizione che illustra plasticamente come una polemica politica ormai grottesca abbia perso di vista la realtà.
- Leggi anche: Ex Ilva, gli azeri e le chiacchiere a zero
Il 2024 e il 2025 sono stati segnati da gravi problemi tecnici agli impianti. Il secondo altoforno (AFO2) era rimasto fermo da dicembre 2023 e, nonostante fosse prevista la sua riaccensione, i commissari hanno annunciato nel giugno 2025 di aver riscontrato gravi danni impiantistici che ne impediscono la riattivazione.
La situazione è precipitata il 7 maggio 2025 con un grave incendio all’altoforno 1 causato dalla rottura di una tubiera, che ha portato la Procura di Taranto a disporre il sequestro senza facoltà d’uso dell’impianto. A inizio luglio 2025, con due dei tre altoforni fermi (AFO1 sequestrato e AFO2 danneggiato), si è verificata un’ulteriore crisi: anche l’unico altoforno ancora attivo (AFO4) è stato fermato per 96 ore (dal 7 al 10 luglio) per ispezioni tecniche. Per la prima volta nella storia dello stabilimento, Taranto avrà produzione zero per quattro giorni consecutivi.
Continuità immaginaria e ipotesi di spezzatino
I sindacati esigono la cosiddetta continuità produttiva, che nei fatti si è dissolta, come requisito per ottenere la decarbonizzazione, che è ormai una sorta di entità mitologica. Nel frattempo, il ricorso alla cassa integrazione straordinaria è ovviamente esploso. Nel luglio 2024 era stato siglato un accordo di speranza che riduceva il numero massimo di lavoratori in cassa integrazione da 5.200 a 4.050 per l’intero gruppo, con 3.500 a Taranto. Dopo l’incendio del 7 maggio 2025, la situazione è ulteriormente peggiorata: 3.926 lavoratori sono finiti in cassa integrazione, di cui 3.538 a Taranto, 178 a Genova, 165 a Novi Ligure e 45 a Racconigi.
Per sostenere la continuità aziendale, il governo ha varato diversi interventi finanziari. Nel marzo 2025 è stato convertito in legge il decreto-legge n. 3/2025 che ha incrementato le risorse da 150 a 400 milioni di euro per garantire la continuità produttiva. Nel giugno 2025, il governo ha stanziato ulteriori 200 milioni di euro per la continuità produttiva mentre nel decreto milleproroghe il prestito ponte è stato aumentato di 100 milioni, passando da 320 a 420 milioni e ricorrendo anche ai fondi sequestrati alla ex proprietà privata e destinati alle bonifiche. I prestiti ponte verso il nulla si moltiplicano, come da scontate attese.
E oggi? Il governo vuole ancora privilegiare la trattativa con Baku Steel, non è chiaro quanto credendoci, ma il ministro Urso ha avvertito che “se non ci fosse un’AIA sanitaria e ambientale condivisa, il tribunale di Milano dovrebbe decidere per la chiusura dello stabilimento”. I sindacati invocano la nazionalizzazione come unica soluzione, non è chiaro per cosa. I costi sarebbero stratosferici ma altrettanto lo sarebbero in ipotesi di trascinamento della situazione attuale. Motivo per cui i giornali titolano, al solito, scegliendo tra “Ultima chiamata per l’Ilva” e un sempre classico “Fate presto”.
Ora, per quadrare il cerchio, bisogna perseguire due obiettivi: evitare che l’Italia perda la produzione di acciaio, soprattutto in questo periodo storico, e contenere i costi per la collettività. Motivo per cui, con un modicum di senso comune, starebbe timidamente affiorando l’ipotesi di uno spezzatino per Acciaierie d’Italia. Secondo il Messaggero, potrebbero nascere due Ilva: un polo del Nord basato sull’attuale impianto di Genova e un sito produttivo di dimensioni ridotte, rispetto a quelle attuali, a Taranto.
Se così fosse, si avrebbe una necessaria riduzione di capacità produttiva, permettendo ai produttori nazionali di partecipare a una eventuale struttura consortile, e si metterebbe uno stop loss a Taranto, che nella peggiore delle ipotesi dovrebbe essere assistita per i costi legati alle bonifiche e alla gestione degli esuberi che sorgerebbero.
Non sono soluzioni semplici e soprattutto non sono indolori. Ma continuare a questo modo, con gli enti locali pugliesi che hanno potere di interdizione assoluta su vita e morte dell’azienda, non è possibile. Insistere a chiedere il mantenimento di livelli produttivi di un’altra era geologica, mentre in tutto il mondo ci si attrezza per ridurre l’impatto della sovracapacità, vuol dire piazzare una bomba ad altissimo potenziale sotto i conti dello stato.
Uno status quo devastante
Cercare il mantenimento dello status quo vuol dire proseguire a produrre prestiti ponte e Cigs sino al giorno del giudizio. Temo che questo sia esattamente ciò che accadrà ancora per molto tempo e molti prestiti ponte. La mancata presa d’atto della realtà costerà moltissimo ai contribuenti italiani. Costerebbe probabilmente meno pagare un vitalizio agli attuali dipendenti ex Ilva di Taranto e completare la bonifica del sito. Se solo ci si rendesse conto che affidare agli enti locali pugliesi il destino nazionale dell’intera azienda è un suicidio, si compirebbe il passo decisivo per risolvere il problema.
Avremo invece ulteriore accanimento terapeutico, con tentativi di allettare compratori esteri a mezzo di sussidi pubblici di varia natura, chiedendo magari alla Ue nuove deroghe agli aiuti di stato, fors’anche a mezzo di presenza pubblica nell’azionariato, al grido “perché la Germania sì e noi no? Eh? Eh?” E avremo anche ardite tesi sulla necessità di fare entrare l’ex Ilva nel campo degli investimenti Nato e nel leggendario 5 per cento. Perché quando si tratta di autoinganni e di produrre oneri epocali per la collettività, noi italiani restiamo ancora ineguagliati dai pur numerosi imitatori che in Europa stanno spuntando come funghi. Vedi alla voce British Steel.
Sempre a proposito di autoinganni, sarebbe anche utile dismettere costose illusioni come l’utilizzo di idrogeno per il preridotto. Anche qui, guardare al mondo reale potrebbe aiutare. Chiedere ad Arcelor Mittal e Thyssenkrupp.
- Aggiornamento del 9 luglio: fate presto ma non troppo, e sempre dipendenti dai desiderata di Taranto. Non finirà bene.
(immagine creata con WordPress AI)



