Draghi e il cupio eurodissolvi

Nell’intervento di Mario Draghi al Meeting di Cl a Rimini non c’è nulla di inedito se non, forse, l’inasprimento dei toni quando ricorda che l’Europa si è risvegliata irrilevante, durante un periodo fortemente hobbesiano nella storia dell’umanità. L’Europa, in senso lato, si risveglia irrilevante da molto tempo, ma oggi siamo forse al nadir di questa parabola di consapevolezza.

Per anni l’Unione Europea ha creduto che la dimensione economica, con 450 milioni di consumatori, portasse con sé potere geopolitico e nelle relazioni commerciali internazionali. Quest’anno sarà ricordato come l’anno in cui questa illusione è evaporata.

Un mondo nuovo, anzi antico

Una regione che presumeva di essere il primo generatore planetario di soft power, prodotto da una inesausta pulsione a normare, viene schiaffeggiata dal ritorno dell’antitesi del soft power, cioè da Stati Uniti e Cina. Abbiamo subìto i dazi di Trump, elenca Draghi, dovremo comprare le armi americane (depotenziando grandemente l’impulso espansivo militar-keynesiano) per un riarmo che sarebbe dovuto avvenire ma non certo in queste forme e modi; siamo i primi pagatori della causa ucraina ma senza possibilità di incidere realmente sulla traiettoria della guerra.

Le potenze planetarie, quelle vere, ci rimettono al nostro posto:

La Cina ha chiarito che non considera l’Europa come un partner alla pari e usa il suo controllo nel campo delle terre rare per rendere la nostra dipendenza sempre più vincolante.

In questo siamo in compagnia degli Stati Uniti ma non c’è da rallegrarsi.

Lo scetticismo sull’Europa, dice Draghi, non è sui suoi valori ma sulla incapacità a difendere questi valori. Non sono del tutto certo che sia così: viviamo un periodo di rinascita, genuina o strumentale, del concetto di stato nazionale, e la Ue è l’antitesi di tale concetto. Cosa dovremmo difendere? Gli scambi commerciali, la libera manifestazione del pensiero (quale?), gli altri precetti democratici che tuttavia sempre più spesso nei singoli paesi vengono accusati di essere il cavallo di Troia di ingerenze e manipolazioni?

Se viviamo un’epoca di nazionalismi, la costruzione europea è deviante rispetto all’apparente mainstream dell’epoca. La costruzione europea nacque per impedire la tendenza degli stati nazionali a scivolare nel conflitto e per creare forme di difesa collettiva, dice Draghi. Poi, dagli anni Ottanta, la svolta definita neoliberale:

Questo periodo fu caratterizzato dalla fede nel libero scambio e nell’apertura dei mercati, da una condivisione del rispetto delle regole multilaterali e da una consapevole riduzione del potere degli Stati che attribuivano compiti e autonomia ad agenzie indipendenti. L’Europa ha prosperato in quel mondo: ha trasformato il proprio mercato comune nel mercato unico, è diventata attore fondamentale nell’Organizzazione Mondiale del Commercio e ha creato autorità indipendenti per la concorrenza e la politica monetaria. Ma quel mondo è finito e molte delle sue caratteristiche sono state cancellate.

L’ossimorico sovranismo europeo

Questo passaggio è fondamentale: l’Europa ha prosperato in un mondo retto da regole condivise, fondate sul libero scambio e sul ridimensionamento di presenza e ruolo degli stati. “Ma quel mondo è finito”. Qui sta il punto: l’Europa è il comune denominatore di interessi nazionali, quindi resta all’antitesi e agli antipodi del nazionalismo, anche economico. Non sto dicendo che l’attuale sia il migliore mondo possibile ma solo che questo è l’habitat in cui ci troviamo, oggi. E che la costruzione europea appare unfit a tale habitat.

Il cambiamento appare in tutta la sua drammaticità in questo passaggio del discorso di Draghi:

Mentre prima ci si affidava ai mercati per la direzione dell’economia oggi ci sono politiche industriali di grande respiro. Mentre prima c’era il rispetto delle regole oggi c’è l’uso della forza militare e della potenza economica per proteggere gli interessi nazionali. Mentre prima lo Stato vedeva ridursi suoi poteri, tutti gli strumenti sono oggi impiegati in nome del governo dello Stato.

Come può l’Europa adattarsi a questo cambio radicale di paradigma? Come può diventare espressione di un ossimorico “sovranismo europeo”, come quello di cui spesso parla, ritengo in modo strumentale ai suoi interessi strettamente nazionali, il presidente francese Emmanuel Macron? Draghi è consapevole che primum vivere deinde philosophari. Nel senso che bisogna far ripartire la crescita europea, senza la quale le spinte disgregatrici sono destinate a diventare letali, anche perché i nazionalismi hanno facile gioco ad accusare le regole Ue di causare il declino nei loro paesi.

Pertanto, Draghi reitera la lotta alle barriere interne alla Ue. Concetto che, come sappiamo, i governi nazionali sono lesti a catturare e volgere alla propria propaganda. Pensiamo agli svolazzi pindarici di Giorgia Meloni contro le “barriere Ue”, detto dal primo ministro pro tempore di un paese che passa il tempo a costruire barriere anticompetitive interne.

Draghi ricorda che viviamo ormai nella nuova era degli aiuti di stato, e questo è il problema esistenziale per la Ue:

Negli Stati Uniti l’investimento pubblico e privato è concentrato in un piccolo numero di grandi fabbriche con progetti che vanno da 30 a 65 miliardi di dollari. Invece in Europa la maggior parte della spesa ha luogo a livello nazionale essenzialmente attraverso gli aiuti di Stato. I progetti sono molto più piccoli tipicamente tra 2 e 3 miliardi di euro e dispersi tra i nostri paesi con priorità divergenti.

Oltre a dover cambiare il paradigma antitrust, la Ue si troverebbe a dover aumentare il proprio bilancio per “scegliere dei vincitori”, rigorosamente localizzati in alcuni stati nazionali. Al più, ad agevolare entità a più teste in più paesi. Ancora una volta, gli interessi nazionali impediscono di pianificare a tavolino le cosiddette politiche industriali. Termine che, in alcuni paesi tra cui l’Italia, continua a significare sussidi a entità e settori declinanti e imbalsamazione dell’esistente, magari con un bel Golden Power a puntello immaginario. Della serie “basta barriere alla crescita europea”.

Non se ne esce, lo vedete?

La trappola del debito buono

Soltanto forme di debito comune possono sostenere progetti europei di grande ampiezza che sforzi nazionali frammentati insufficienti non riuscirebbero mai ad attuare.

Ma abbiamo visto che la Germania, colta dal panico per il declino del proprio modello di sviluppo, ha deciso di procedere in splendida solitudine e spendersi tutti i risparmi e il sottoinvestimento di decenni. Draghi torna sulla distinzione tra debito buono e cattivo ma io penso che questo sia un concetto che, pur teoricamente corretto, vada abbandonato perché rapidamente catturato dai tossici del debito pubblico, tra i quali gli italiani sono da sempre in prima fila, come dimostrano le ridicole reazioni al discorso di Draghi.

Debito cattivo finanzia i consumi correnti, quello buono gli investimenti, meglio se sovranazionali? Lo sappiamo, è una distinzione da libro di testo. Che, come tale, vien rapidamente catturata e stravolta da chi spaccia i consumi correnti per investimenti. Perché il denaro è e resterà fungibile, sino all’estinzione del genere umano.

Draghi ritiene di vedere unità nella scena di Washington:

La presenza dei cinque leader di Stati europei e dei Presidenti della Commissione e del Consiglio Europei nell’ultimo incontro alla Casa Bianca è stata una manifestazione di unità che vale agli occhi dei cittadini più di tante riunioni a Bruxelles.

Possibile. Oppure era solo la disperazione di leader che si marcano stretto gli uni con gli altri, e che alla fine si trovano ad ascoltare le fantasie di un vecchio istrione che ritiene, non senza ragione, di averli tutti in pugno.

Draghi termina con un très vaste programme:

I governi devono definire su quali settori impostare la politica industriale. Devono rimuovere le barriere non necessarie e rivedere la struttura dei permessi nel campo dell’energia. Devono mettersi d’accordo su come finanziare i giganteschi investimenti necessari in futuro, stimati in circa 1,2 trilioni di euro all’anno. E devono disegnare una politica commerciale adatta a un mondo che sta abbandonando le regole multilaterali.

Barriere nazionali insormontabili e tossici da debito

Non credo ci voglia una testa d’uovo geopolitica per rendersi conto che, sin quando esisteranno stati nazionali, questo programma resterà un libro dei sogni. Difesa comune senza politica estera comune? Politica commerciale da mondo hobbesiano, cioè munita di bastoni e non solo di carote, con ventisette attori nazionali?

Margini per recuperare potenziale di crescita ci sono, almeno credo, pur coi vincoli nazionali. Temo però che, giunti al dunque, vedremo solo misure debolmente incrementali, proprio nel segno del denominatore comune assai minimo e minimale, per non incappare nei veti nazionali. Un po’ come la produzione seriale di “libri bianchi”. Temo quindi che non serviranno a rimettere in linea di galleggiamento una entità che è fuori dai tempi correnti. Nel frattempo, in Italia continueremo a leggere amenità del tipo “L’Europa deve svegliarsi”, oppure “L’Europa ci ostacola”, o anche “vogliamo gli eurobond per pagare la sanità e sostenere i nostri meravigliosi e geniali esportatori, che nessun altro paese europeo possiede” e magari sussidiare aziende arrivate al capolinea. E nel frattempo declineremo.

Continueremo da noi anche a leggere invocazioni a San Mario Draghi, del tipo “se ci fosse lui, caro lei!”. Spesso per mero calcolo di bottega politica domestica. Il problema è che Draghi non è dio, non cammina sulle acque, non può ordinare a ventisette paesi di fare alcune specifiche cose. Quel suo “Do something!“, pur se venuto dal cuore e dallo sconforto, rischia di trasformarsi in un liberi tutti di retorica e cupio eurodissolvi.

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