Milei e l’eterno ritorno del peso al collo

L’Argentina di Javier Milei è tornata nei ricorrenti guai di una corsa a liberarsi dei pesos e comprare dollari. Il catalizzatore pare essere stato la pesante sconfitta del partito del presidente, La Libertad avanza, alle elezioni della provincia di Buenos Aires, dove vive circa un terzo della popolazione argentina. Sconfitta per mano dell’immancabile cartello peronista, che ora si chiama (pensa un po’) Fuerza Patria.

Il prossimo 26 ottobre si terranno le elezioni di midterm, per rinnovare parte della camera bassa e del senato. Il vantaggio del partito di Milei si è dimezzato nelle ultime settimane: una nuova pesante sconfitta potrebbe segnare la fine dell'”esperimento” anarco-capitalista. Lo stesso presidente, secondo i sondaggi, soffre un crescente tasso di disapprovazione da parte dell’elettorato. Né lo ha aiutato il presunto coinvolgimento di sua sorella Karina, vero boss della sua presidenza, in una vicenda di corruzione.

Corsa al dollaro, ci risiamo

Anche per questo, nei giorni successivi alla sconfitta a Buenos Aires, è ripresa la corsa al dollaro, costringendo la banca centrale argentina a vendere riserve del biglietto verde (1,1 miliardi in tre giorni) per impedire che il peso sfondasse il tetto della banda di oscillazione concordata col Fondo Monetario Internazionale per l’erogazione di ulteriori 20 miliardi di dollari, che fanno del paese sudamericano la prima esposizione del prestatore multilaterale di Washington, in una sorta di coazione a ripetere errori. L’Argentina è peraltro in ritardo nel cronoprogramma di ricostituzione delle riserve valutarie di proprietà, concordato col FMI.

I mercati hanno iniziato a vendere tutto quello che è argentino: cambio, azioni, debito sovrano. Il problema di Milei è che ha sin qui preferito mantenere un cambio nominale e reale fortemente sopravvalutato (secondo alcune stime, tra il 20 e il 30 per cento), per evitare di importare inflazione. Così facendo, ha reso molto conveniente per gli argentini comprare all’estero e fare vacanze fuori dai confini, causando un forte deterioramento del saldo delle partite correnti.

Anche a causa di ciò, l’Argentina continua ad avere riserve valutarie nette molto basse (circa 6 miliardi di dollari), perché la gran parte di quelle lorde (circa 39 miliardi di dollari) sono frutto di prestiti, incluse le linee di swap con la Cina.

Proprio quando la situazione per l’Argentina pareva volgere al peggio, con l’ennesima reiterazione di una crisi valutaria, il Segretario di Stato statunitense, Scott Bessent, è corso in aiuto di Milei, annunciando su X una sorta di “whatever it takes” a favore del paese sudamericano, “che è sistemicamente importante per gli USA”, e delineando non esaustivamente i potenziali strumenti utilizzabili per il sostegno.

Tra i quali, linee di swap (del Tesoro, non della Fed), acquisti diretti di valuta e di bond denominati in dollari emessi dall’Argentina, utilizzando il fondo di stabilizzazione valutaria del Tesoro statunitense. La notizia ha prodotto un forte rimbalzo degli asset argentini, che sino a quel punto erano decisamente prostrati, ma ora ci si chiede cosa accadrà. Per il momento, la Banca mondiale e la Banca interamericana di sviluppo hanno annunciato l’accelerazione degli esborsi in dollari già previsti, ma questo rischia di essere solo l’ennesimo giro di metadone per l’Argentina.

Riserve in prestito

Che il problema fosse nel cambio e nelle riserve è stato evidente dai primi provvedimenti di Milei, che pure ha frenato la monetizzazione della banca centrale e attuato una stretta fiscale senza precedenti, che hanno prodotto una forte disinflazione. Conseguenza meccanica della quale è stato il crollo dei livelli di povertà del paese. Ma senza risolvere la “questione valutaria” non si va da nessuna parte e si riproducono i dolorosi epiloghi del passato.

Preceduti dagli stessi disperati tentativi di recuperare valuta, come fatto da Milei giorni addietro, con l’annuncio di voler sospendere temporaneamente le tasse sulle esportazioni agricole, oltre che su carne bovina e pollame argentini, perdendo importanti entrate fiscali pur di portare a casa dollari. Una svalutazione mirata, in pratica. L’operazione è peraltro terminata rapidamente, dopo il raggiungimento dell’obiettivo di 7 miliardi di dollari di vendite.

È evidente il desiderio americano di non far fallire l’esperimento di Milei, oltre che di contrastare la presenza cinese nel paese, mentre Pechino sta dilagando nel resto dell’ex cortile di casa di Washington. L’Amministrazione Trump sente affinità ideologica per Milei ma è utile sottolineare che, almeno in politica commerciale, Milei è l’antitesi di Trump, visto che uno ama i dazi mentre l’altro ne ha cancellati molti già all’inizio del suo mandato.

Dopo aver suggerito che il solo effetto annuncio sarebbe stato molto importante per risolvere una crisi giudicata come semplice momento di volatilità in un quadro di risanamento fiscale, visto che Milei persegue il pareggio di bilancio, Scott Bessent ha annunciato, per iniziare, una linea di swap per 20 miliardi di dollari, che eccede quella per 18 miliardi messa a disposizione dalla Cina. Vien fatto naturale ipotizzare una sostituzione tra le due linee di credito, passata la fase di emergenza.

Malgrado ciò, la situazione resta difficile. Anche se Milei, dopo la scoppola delle provinciali, ha assunto un atteggiamento insolitamente contrito e promesso che nella prossima legge di bilancio amplierà i capitoli di spesa sociale senza pregiudicare l’avanzo, il destino del paese è e resta nelle mani dell’elettorato. Che a maggioranza peraltro non è esattamente tifoso degli Stati Uniti.

Milei dovrà modificare in senso meno antagonistico l’atteggiamento nei confronti delle sigle partitiche con cui necessita di allearsi, e probabilmente rimodulare la traiettoria di spesa. E potrebbe non bastare. Quanto al supporto statunitense, l’approccio transazionale di Trump potrebbe risolversi nella richiesta di robuste contropartite economiche, ad esempio sulle materie prime, anche per tranquillizzare la propria opinione pubblica. Se le cose andassero male, l’Argentina si troverebbe di fronte alla scelta della parte a cui consegnarsi, tra Cina e Stati Uniti.

Come ricorderete, Milei ha fatto campagna elettorale fantasticando di una dollarizzazione dell’economia argentina. Circostanza che priverebbe il paese di una sua politica monetaria (non una grande perdita, guardando la storia), esponendolo ai venti di Washington. Ma il problema è rimasto: come dollarizzi se sei privo di dollari, cioè hai riserve nette negative o pressoché nulle? E c’è anche una evidente fallacia, nella proposta: se hai successo e la tua policy è ritenuta credibile, la popolazione sente meno bisogno di detenere dollari. Anzi, se ne libera convertendoli in pesos. Circostanza peraltro ricorrente, in modalità speculativa, quando l’Argentina attraversa una delle sue fasi di cambio patologicamente sopravvalutato.

Le strade tornano a incrociarsi

La mossa di Trump invece è internamente criticata da chi, come la Dem Elizabeth Warren, lo accusa di accingersi a bruciare risorse in dollari per compiere il salvataggio di un altro paese, che ha peraltro una valuta ancora fortemente sopravvalutata. Se la congiuntura statunitense dovesse peggiorare in conseguenza dei dazi di Trump, c’è il rischio che anche parti della sua coalizione interna (ad esempio i farmer) diventino molto vocali nella richiesta di sostegni.

Per la seconda volta nelle sue due presidenze, le strade di Trump e quelle dell’Argentina si incrociano. Durante il primo mandato, si presume dietro “invito” della Casa Bianca per dare una mano all’amico presidente Mauricio Macri, il Fondo monetario internazionale, guidato all’epoca da Christine Lagarde, alluvionò Buenos Aires di 50 miliardi di dollari di prestiti, e la cosa finì molto male. Ora si rischia la replica, ma con intervento diretto di Washington.

Secondo una stima di Barclays, l’Argentina ha 95 miliardi di dollari di debito denominato in dollari e euro, contro riserve nette per circa 6 miliardi di dollari. Entro il termine del mandato di Milei, nel 2027, dovrà effettuare rimborsi del debito per un valore di 44 miliardi di dollari. Nel primo semestre del prossimo anno è previsto un rimborso per 10 miliardi di dollari al FMI.

Milei non può permettersi di utilizzare riserve valutarie sempre più scarse per sostenere il peso. Che anzi dovrebbe subire una svalutazione molto forte per riallinearsi ai fondamentali. Ma questo farebbe schizzare l’inflazione e scatenerebbe l’ennesima corsa al dollaro. Bessent ha definito il supporto americano come “un ponte verso le elezioni”, intendendo quelle di midterm del 26 ottobre, che per Milei rischia di essere il giorno del giudizio.

Il presidente argentino ha una seconda possibilità, pare, ma saranno gli elettori a decidere del suo destino ed assumersi responsabilità e conseguenze di tale decisione. Pare funzioni così, in quella decadente convenzione sociale occidentale chiamata democrazia, picconata dal grande alleato di Milei che sta al nord.

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