Lo yuan cinese puntato alla tempia argentina

Il ministro argentino dell’Economia, Sergio Massa, ha annunciato mercoledì scorso che il suo paese pagherà le importazioni dalla Cina usando lo yuan. Nel mese di aprile tali importazioni hanno avuto un controvalore di circa un miliardo di dollari. Nel 2022, l’interscambio commerciale tra Cina e Argentina è stato pari all’equivalente di 20,6 miliardi di dollari, con un incremento annuo di circa il 24%.

Vista così, questa potrebbe sembrare l’ennesima notizia, puntualmente telegrafata da Pechino, del trionfale processo di dedollarizzazione che il mondo ha avviato contro gli americani, rei di usare il biglietto verde come arma. Del resto anche il presidente brasiliano Lula ha chiesto con enfasi che i paesi del blocco BRICS utilizzino una “valuta comune” per regolare il loro interscambio.

La valuta “comune” dei BRICS

Richiesta giunta durante il recente viaggio in Cina di Lula, per assistere all’insediamento della sua allieva, l’ex presidente Dilma Rousseff (rimossa dalla presidenza brasiliana nel 2016 dopo procedura di impeachment per accuse di corruzione) alla guida della Nuova Banca di Sviluppo, prestatore multilaterale dei paesi BRICS con sede a Shanghai, che la stessa Rousseff aveva contribuito a creare, al tempo della sua presidenza. E cosa c’è di meglio dello yuan, come valuta “comune” già pronta all’uso?

Come abbiamo visto, e con buona pace delle fantasie sulla creazione di una moneta comune tra Brasile e Argentina, che tendono a ricorrere nella storia delle relazioni non semplicissime tra i due paesi, il Sudamerica va rapidamente verso l’utilizzo dello yuan, nell’interscambio cinese e -forse- nei rapporti commerciali tra singoli paesi. Anche se per quest’ultima evoluzione, che sarebbe politicamente molto rilevante, occorrerà attendere.

Tornando all’accordo tra Cina e Argentina, purtroppo per il paese sudamericano i guai chiamano altri guai. Un’inflazione ormai al 100%, difficili manovre per rinegoziare i prestiti del Fondo monetario internazionale, e ora la peggiore siccità di sempre, che ha devastato le esportazioni di prodotti agricoli del paese, con mancati introiti valutari per almeno 15 miliardi di dollari, secondo stime governative.

L’Argentina è da tempo immemore avvolta in una profonda crisi valutaria. Politiche economiche disfunzionali impoveriscono il paese di riserve valutarie, che servono (molti tendono a scordarlo) per pagare le importazioni. E qui entra in gioco la Cina.

Una grave siccità. Di dollari

Perché il ministro Massa, nel suo tweet di spiegazione dell’accordo, ha candidamente ammesso che la linea swap in yuan, cioè il prestito che Pechino concede a Buenos Aires, servirà all’Argentina per risparmiare preziosi dollari delle proprie riserve. Si tratta di uno stato di necessità estrema, che la Cina riesce abilmente a capitalizzare con quella che ormai è la sua “arma” di politica estera di elezione: le linee di swap, con le quali offre liquidità a paesi che ne hanno bisogno e che si trovano in condizioni di penuria di dollari tra le proprie riserve.

La stessa policy con cui Pechino ha finanziato molti paesi emergenti entro la cornice della Belt & Road, e che ora si trovano in dissesto a causa anche e soprattutto del rialzo dei tassi sul dollaro, che li costringe a tentare di negoziare una ristrutturazione del debito estero con i creditori internazionali, privati e istituzioni multilaterali. La stessa Nuova Banca di Sviluppo dei BRICS, presieduta da Dilma, prevede come principale strumento di intervento una linea di liquidità comune gestita dalla Cina che altro non è che uno swap.

Ma, come sappiamo, è in corso un braccio di ferro tra il Fondo Monetario Internazionale e la Cina, perché la seconda non intende subire tagli del valore nominale dei propri crediti, è disposta al più a offrire rinvii di pagamento e chiede, per partecipare alle ristrutturazioni, che i prestatori multilaterali occidentali accettino a loro volta di subire una decurtazione delle proprie esposizioni, che sono invece “super senior” da sempre. Superfluo osservare che, se il FMI dovesse accettare tagli ai propri crediti, finirebbe a estinguersi entro poco tempo. E la Cina avrebbe mano libera anche come prestatore globale di finanza di emergenza, oltre che creditore ordinario.

E fu così che, per sfuggire alla cosiddetta weaponisation del dollaro, cioè il suo utilizzo come arma di politica estera da parte di Washington, un numero crescente di stati finisce nelle braccia della Cina. Spesso per stato di necessità indotto dal tentativo di sfuggire alla “dittatura” del dollaro. Quando mancano alternative e si è disperati è difficile cogliere l’ironia della storia della sostituzione di una valuta con un’altra, ma sempre puntata alla propria tempia.


Nota tecnica a pie’ di pagina: lo swap valutario propriamente detto è un contratto in cui due controparti si impegnano a scambiarsi flussi di pagamento periodici in due diverse valute, relativamente al capitale e al pagamento degli interessi, secondo le specifiche modalità contrattuali. In questo caso, la Cina deposita in Argentina i suoi yuan, che vanno a rimpolpare lo stock di riserve del paese sudamericano. Dopo di che, gli yuan sono usati per regolare importazioni ed esportazioni tra i due paesi. In pratica, è un credito di fornitura.

Ma cosa offre l’Argentina come altra gamba formale dello swap? Forse pesos, che tuttavia sono quasi carta straccia. O forse dollari, e sarebbe un’atroce ironia, oltre al fatto che l’Argentina ne ha pochi. Oppure? Chissà, forse opzioni reali sull’economia del paese e le sue risorse. Uno swap è un contratto: basta la volontà più o meno libera delle parti e ci si può scrivere di tutto. E secretare di conseguenza.

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