L’acquisto da parte della Provincia di Milano del 15 per cento della società Milano-Serravalle, che gestisce l’autostrada A7 e le tangenziali milanesi, non ha avuto sui media l’eco che meritava, forse perché trattasi di evento “locale”, oppure perché i nostri occhiuti watchdogs della libera stampa, quando si tratta di fare le pulci ai propri “referenti culturali”, vengono colti da improvvisa afasia e proprio non riescono a tener dritta la schiena. Proviamo quindi a riassumere e a tentare di trarre qualche insegnamento, fuor di moralismo.
La Provincia di Milano, guidata dal diessino Filippo Penati, ex sindaco di Sesto San Giovanni, già azionista di controllo della Serravalle con il 36 per cento decide, mesi addietro, di rilevare un altro 15 per cento, per raggiungere la maggioranza assoluta ed ottenere l’effetto collaterale di estromettere dal controllo della società il Comune di Milano dell’odiato rivale Gabriele Albertini. Penati chiede ed ottiene da Banca Intesa un prestito di 238 milioni di euro, e conclude l’affare con il costruttore Marcellino Gavio.
Sconcerto di Albertini e di tutti (o quasi) i cittadini-contribuenti, che si chiedono quali profonde motivazioni possano indurre il presidente di un ente locale ad ottenere finanziamenti così ingenti, e di conseguenza ad impegnare risorse pubbliche, al solo scopo di rafforzare un controllo azionario già esistente. Penati non si scompone, parla di rilevanza strategica di una rete infrastrutturale di mobilità, farfuglia qualcosa circa l’obiettivo di ricollocare in borsa, in un futuro prossimo, importanti quote di minoranza della Serravalle ed estinguere, se possibile con un margine di profitto, il finanziamento ottenuto.
Ad oggi, questo ardito esercizio di finanza progressista ha provocato una richiesta di acquisizione di documenti relativi alla transazione da parte della Corte dei Conti, felicemente uscita dal proprio torpore di vigilante dell’utilizzo del denaro dei contribuenti, oltre ad un esposto al Tar, presentato da Alleanza Nazionale, Forza Italia e Udc (con il supporto del Comune di Milano) che mette in dubbio la legittimità della delibera di acquisizione del pacchetto azionario, assunta dalla sola Giunta e non dal Consiglio provinciale nella sua interezza. Al margine di questa vicenda, segnaliamo le accuse del sindaco di Milano che sostiene, citando intercettazioni telefoniche rese pubbliche, che vi fosse un “concerto” tra Penati, l’ex ministro diessino Bersani e Gavio, per permettere a quest’ultimo di acquisire la liquidità necessaria per prendere parte alla scalata di Unipol a Bnl. Non entriamo nel merito di questa accusa pur considerando che, se una simile vicenda avesse coinvolto, nel ruolo di raider a credito, esponenti del centrodestra, avremmo probabilmente assistito a puntate monografiche di “coraggiosa denuncia civile” di Report e Ballarò, con coreografia di girotondi, interrogazioni parlamentari e invocazioni d’aiuto all’Unione Europea ed all’Onu, per impedire l’instaurazione della tirannide in Italia. Vorremmo segnalare un articolo, pubblicato sul meritorio (quando tratta di economia e non indulge in moralistici e capziosi endorsement di parte) sito lavoce.info, a firma di Marco Ponti ed Andrea Boitani. Gli autori criticano esplicitamente la logica che ha portato alla stagione delle privatizzazioni sotto i governi di centrosinistra: preminenza assoluta di obiettivi di cassa, scarsa o nulla liberalizzazione dei mercati, che hanno condotto alla sostituzione di monopoli pubblici con monopoli privati. Lasciamo parlare l’esemplare eloquenza degli autori:
Una volta create forti rendite grazie a privatizzazioni concepite con finalità puramente finanziarie (come quella della Società Autostrade, nel 1999), si è determinata la convenienza per soggetti pubblici locali – apparentemente non così privi di risorse come lamentano, o comunque con facilità di accesso al finanziamento – a tentare la via del capitalismo. Non sembra possibile, tuttavia, vedere una strategia riconducibile all’interesse pubblico (comunque inteso o definito) in queste operazioni, ma solo allargamenti di sfere di potere di soggetti pubblici, con obiettivi non chiaramente esplicitati, ma apparentemente soltanto di carattere finanziario, e con manovre certo non molto trasparenti, che potrebbero prestarsi al consolidamento di “rapporti impropri” tra politica ed economia.
Altro argomento di grande rilevanza è rappresentato dal ruolo del regulator pubblico. Una delle accuse più ricorrenti che il centrosinistra rivolge all’attuale maggioranza è proprio quella di aver depotenziato e marginalizzato l’azione delle Authorities, rendendole prive della capacità di “mordere” e soggette a sudditanza nei confronti del potere politico. Ponti e Boitani sembrano reiterare questa critica, parlando della consistente redditività delle utilities italiane, tale da renderle tanto concupite da imprenditori e banche finanziatrici:
Si tratta, in misura molto rilevante, di rendite di monopolio, generate dalle tariffe consentite da un regolatore debole, e quindi facilmente “catturabile”. Manca infatti una Autorità indipendente di regolazione nei trasporti, che pure è prevista nell’ancora formalmente vigente Piano Generale dei Trasporti. Siamo sostanzialmente di fronte a una “tassa impropria”: come definire altrimenti una rendita di monopolio determinata da un decisore pubblico?
Per dirla con Hegel, il diavolo si nasconde nei particolari: prima si privatizza, l’intendence suivra. Ma quando si tenta di mettere mano alle cause di queste rendite di monopolio, e quindi fare dell’antitrust, ecco puntuali le obiezioni dei monopoli ormai privatizzati: non potete fare questo, pensate al danno che arrechereste agli orfani ed alle vedove che hanno sottoscritto le nostre azioni, al momento della privatizzazione. Ed il cerchio si chiude, con buona pace di chi ha privatizzato con l’obiettivo prioritario di fare cassa e magari di agevolare (chissà, magari anche con qualche direttiva mirata…) qualche gruppo imprenditoriale “amico”. Il problema esiste a tutte le latitudini, ed è aggravato dalla presenza di funzioni di utilità dei portatori d’interessi (burocrati, politici, imprenditori, sindacati), di solito divergenti dal pubblico interesse e dalla missione istituzionale per il perseguimento della quale la burocrazia viene creata. Siamo consapevoli che, in un mondo reale, una funzione di antitrust sia necessaria ed opportuna, ma non riusciamo ad essere sufficientemente positivisti da credere che tale funzione possa in qualche modo essere esente dal perseguimento di fini diversi da quelli istituzionali, a maggior ragione in un paese di consolidata cleptocrazia quale l’Italia. Riteniamo che la motivazione tradizionalmente addotta per salvaguardare il ruolo delle Authorities, cioè il disegno di meccanismi organizzativi tali da evitare o minimizzare la “cattura” del regolatore da parte del regolato, rappresenti un’illusione. Il problema può forse porsi nell’intensità di tale cattura, ma è destinato a permanere, ed a perpetuare quell’eterogenesi dei fini che è causa ed effetto dell’intervento pubblico nell’economia, e di tutte le suggestioni di “terza via” che, soprattutto in Italia, mantengono ancora legioni d’interessati tifosi.