Come eravamo

Quelli che seguono sono alcuni punti qualificanti del pensiero di Romano Prodi, il “bambino della politica”, raccolti dall’Espresso nel corso di un’intervista al Professore, ai tempi presidente dell’Iri, nel lontano marzo 1987:

Professore, in questi anni lei ha dovuto affrontare alcuni casi spinosi […] Lei è stato censurato dalla Corte dei conti per aver tentato di vendere la Sme a trattativa privata. Oggi rifarebbe quello che ha fatto?

“Non c’erano alternative, perché nessuno voleva la Sme prima che si sapesse dell’accordo con Carlo De Benedetti: solo dopo si sono concretamente candidati gli altri. E poi le nostre, dal punto di vista del diritto, sono imprese di diritto privato ed è quindi nostra facoltà scegliere le vie che reputiamo migliori per vendere un’azienda.”

Interessante professione di fede privatistica, che di norma rappresenta una delle condizioni necessarie ma non sufficienti per l’affermazione di una piena cultura del libero mercato. Circa il fatto che non vi fossero acquirenti per la Sme, probabilmente ciò fu dovuto al fatto che la trattativa con l’Ingegnere fu talmente segreta che divenne di pubblico dominio solo quando venne annunciato alla stampa il memorandum d’intesa. Quello che accadde dopo, è noto: Berlusconi creò, con Ferrero e Barilla, la I.A.R. (Industrie Alimentari Riunite) e rilanciò sul prezzo d’acquisto per assicurarsi la Sme. Non ci soffermeremo sulla vicenda giudiziaria successiva, perché in questo contesto essa non è rilevante. Quello che occorre sottolineare, tuttavia, è che all’epoca l’Iri era impegnato in un imponente sforzo di risanamento, che passava anche attraverso dismissioni di aziende. Da un punto di vista puramente finanziario, tentare di vendere a trattativa privata una realtà appetibile come la Sme avrebbe condotto ad un danno per l’Iri, impedendo all’istituto di massimizzare i prezzi di cessione. Ma Prodi non se ne curò, preferendo magnificare quasi ideologicamente l’aspetto “privatistico” delle trattative.

Ben diverso atteggiamento il Nostro manifestò al momento della cessione di Alfa Romeo che, a differenza di Sme, produceva pesanti perdite operative, ed era afflitta da un endemico anarco-sindacalismo (o, più propriamente, da un diffuso fancazzismo di matrice parastatale). Nella circostanza della vendita dell’azienda di Arese, Prodi preferì adottare il metodo dell’asta, nello specifico tra Fiat e Ford. Una sconfessione della predilezione prodiana per le trattative private, o più propriamente segrete, meglio se con amici fidati.

Il fatto che si sia svolta una specie di asta pubblica, sia pure impropria, tra Fiat e Ford per l’Alfa Romeo, ha fatto aumentare il prezzo di vendita dell’Alfa e voi ne avete tratto un vantaggio…

“Sono perfettamente convinto di questo.”

Lei considera la vendita dell’Alfa Romeo un successo perché incasserete (a valori attualizzati) circa 500 miliardi o un insuccesso perché è la prova che non siete stati capaci di risanarla?

“Una sera Viezzoli, Fabiani, Tramontana ed io, dopo anni di sforzi, ci siamo messi attorno a un tavolo e abbiamo fatto una precisa valutazione: qui abbiamo una fabbrica che ha due stabilimenti, uno a Napoli ed uno a Milano; una capacità produttiva di 400.000 auto all’anno; e ne riesce a vendere solo duecentomila. Che fare? La logica diceva: basta chiudere uno dei due stabilimenti. Ma era una via politicamente impercorribile. Non rimaneva, quindi, che vendere ad un gigante dell’auto che fosse in grado di assorbire, nella sua complessa organizzazione specifica di quel settore, tutti e due gli stabilimenti senza chiuderne nessuno. E così abbiamo deciso di vendere l’Alfa Romeo.”

Una precisazione: l’articolista, nella propria domanda, parla di “valori attualizzati” del ricavato di vendita dell’Alfa perché, come noto, Fiat offrì un pagamento dilazionato in dieci anni, a differenza del contante messo sul piatto da Ford. E’ corretto definire quella un'”asta impropria”, nel senso che il bene posto in vendita non venne aggiudicato al miglior offerente. Leggiamo quanto scrive in merito a quella transazione un giuslavorista non suscettibile di simpatie destrorse (ed anzi addirittura provvisto di tessera Cgil), il professor Pietro Ichino, nel suo eccellente libro “A che cosa serve il sindacato?”, nel paragrafo intitolato “La lunga agonia”:

1984 – L’Alfa Romeo, posseduta dall’Iri, è vicina al collasso. Tra le cause del bilancio rovinoso – che registra il 18 per cento circa di perdite sul fatturato aziendale – si annoverano un livello bassissimo di produttività accompagnato da un livello molto elevato di conflittualità sindacale e di assenteismo (quest’ultimo ormai da più di un decennio stabilmente al di sopra del 10 per cento, con punte annue da impiego pubblico: 16.04 per cento nel 1974.

1986 – L’Iri cede l’Alfa Romeo alla Fiat per 1700 miliardi di lire (a valori correnti, ndPhastidio). La preferenza accordata alla casa torinese rispetto alla Ford, presentatasi con un’offerta migliore, è dettata da considerazioni essenzialmente nazionalistiche. Gioca però, a favore di questa decisione, anche la riduzione di personale che la Ford dichiara di ritenere necessaria per rilanciare l’azienda.

Come si può constatare, ancora una volta la decisione di Prodi appare subottimale, dettata da considerazioni di opportunismo più che di opportunità, le cui conseguenze saranno destinate a pesare per molti anni sulle tasche dei contribuenti italiani. Ma questa intervista è illuminante anche perché ci consente di capire lo stile di comunicazione di Prodi. Grandi proposizioni ideali, atteggiamento pensoso come si addice ad uno statista preoccupato del public good. Facciamo rilevare, poi, la robusta castroneria detta dal Professore (di economia industriale, per chi se lo fosse scordato) riguardo le motivazioni tecniche relative alla cessione dell’Alfa. Prodi, sottintendendo il mantenimento dei livelli occupazionali, si esprime come se il compratore di Alfa Romeo, prescindendo da considerazioni di marketing, ricerca e posizionamento competitivo della gamma di modelli, fosse dotato di una sorta di deficit di capacità produttiva, destinato ad essere colmato con l’acquisto del surplus di 200.000 vetture di Alfa. Come se l’eccesso di capacità produttiva di Alfa Romeo fosse un goodwill meritevole di ricevere un premio dall’acquirente, e non il frutto di errori di pianificazione strategica ed eccesso di investimenti per malintese finalità “sociali”. Voi definireste questa considerazione di Prodi come frutto di ignoranza, malafede o un mix delle due? Ma è nel prosieguo dell’intervista, condotta in rigorosa “modalità zerbino” da chi non ha potuto o voluto cogliere la ricca messe di contraddizioni prodiane, che il Professore riesce a concludere la sua parabola di eclettico salvatore della patria:

Ma ha senso che l’Iri abbia delle banche?

“Certo, perché garantisce il pluralismo bancario del paese: ci sono le banche private, le banche pubbliche, le banche popolari e le banche dell’Iri…In certi contesti la concorrenza è garantita dalla presenza di molte banche private. In Europa, e soprattutto in Italia, è garantita dall’esistenza delle banche pubbliche.”

Notevole, vero? Da sostenitore della trattativa privata a cantore delle virtù salvifiche delle banche pubbliche e dell’eterogenesi dei loro fini, che poco o nulla aveva a che spartire con il mercato. Più prosaicamente, Prodi omette di segnalare che, proprio grazie alle banche pubbliche, l’Iri era riuscito l’anno prima (1986) a raggiungere uno “storico” utile di bilancio, a fronte di pesantissime e persistenti perdite nei settori industriali, tra cui spiccavano siderurgia, cantieristica ed auto.

Perché questa è l’essenza dell’uomo Prodi: mente sapendo di mentire, ma lo fa benissimo, e sempre con tutta la gravitas necessaria al caso. Tra pochi mesi, questo absolute beginner della politica italiana affronterà uno dei momenti dirimenti di una vita politica da sempre avvinta come l’edera al potere partitocratico. Se perderà, logica anagrafica e soprattutto politica vorrebbero che egli si ritirasse a vita privata, come succede nelle democrazie adulte; se vincerà, diventerà il commissario liquidatore di un’ex potenza economica. E lo farà benissimo, anche se solo per un breve periodo, alternando menzogne a bugie, nel disperato tentativo di non guardare negli occhi la realtà e (soprattutto) i suoi alleati.

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