Nell’imminenza della visita a Pechino di Hillary Clinton, si levano le voci di quanti, in Cina, vorrebbero mettere sotto tutela le politiche fiscali e di debito pubblico degli Stati Uniti. Yu Yongding, ex consigliere della banca centrale cinese, ed attualmente alla guida del World Economics and Politics Institute presso l’Accademia di Scienze Sociali, ha dichiarato che gli Stati Uniti dovrebbero rassicurare la Cina che il valore dei Treasuries da essa detenuti (pari a 682 miliardi di dollari) non subirà significative erosioni, il che significa invitare gli Usa a non essere troppo spregiudicati nel deficit spending. La presa di posizione sembra la risposta alla intempestiva uscita di Obama (via Geithner), che ha additato la Cina come currency manipulator.
Nella congiuntura attuale, i cinesi preferirebbero un regime di peg al dollaro pressoché rigido, in modo da guadagnare tempo per poter uscire dalla recessione e riconvertire il proprio modello economico, volgendosi alla crescita dei consumi, ed è verosimile che questa richiesta verrà più o meno ufficialmente presentata alla Clinton. Ma i cinesi certamente non ignorano il fatto di essere condannati a riciclare parte del proprio surplus acquistando titoli di stato statunitensi al solo scopo di impedire un indesiderato apprezzamento dello yuan. Né ignorano che liquidare parte non marginale del proprio portafoglio di Treasuries sarebbe azione autolesionistica, per il contraccolpo su prezzi e cambio dollaro-yuan. Forse proprio per limitare parte dell’effetto prezzo, i cinesi hanno recentemente accorciato la scadenza media dei titoli statunitensi in portafoglio, verosimilmente contribuendo alla brusca risalita dei rendimenti. Simul stabunt, simul cadent? Finché Pechino non riuscirà a quadrare il cerchio, l'”equilibrio del terrore finanziario” tra i due paesi è destinato a proseguire.