Dopo i trionfali dati macroeconomici delle ultime due settimane, costruiti su eroiche ipotesi di destagionalizzazione e su ampiezze dell’intervallo di confidenza mensile entro le quali potrebbe passare un Boeing 747, tornano (per la gioia di giornalisti ed accademici, soprattutto italiani) nuovi timori sulla tenuta del sistema bancario, che assomigliano molto a quelli vecchi. Sul FT, Wolfgang Munchau ricorda al mondo che la crisi economica alimenta nuovi dissesti, che causano una crescita del volume di attivi tossici delle banche, che determina nuove strette al credito per “riparare i bilanci”. Attivi tossici sono destinati a diventare, giova ricordarlo, non solo le cartolarizzazioni ed i CDO più o meno sintetici, ma anche i loans erogati ad imprese divenute nel frattempo insolventi. In sostanza, secondo Munchau (e non solo lui), la velocità di deterioramento della qualità degli attivi è stata ed è destinata ad essere superiore a quella delle ricapitalizzazioni, ed il sistema appare come un secchio bucato col quale stiamo cercando di drenare il mare.
Come scrive Munchau:
«Economisti e policymakers che si domandano quanto tempo servirà per ricapitalizzare il settore bancario stanno scoprendo che salvare le banche è un esercizio molto più dinamico di quanto inizialmente pensato.»
Il termine chiave è in effetti proprio l’aggettivo dinamico. E il PPIP, o piano Geithner? Un piccolo ma costoso diversivo alla ricapitalizzazione:
«Alla fine di dicembre, le banche globali hanno svalutato circa 1000 miliardi di dollari di attivi, metà dei quali negli Stati Uniti. Dall’inizio della crisi, la svalutazione di attivi negli Stati Uniti ha superato la fornitura di nuovo capitale. Anche la partnership di Geithner tra pubblico e privati non riuscirà ad invertire con sufficiente velocità e su sufficiente scala il deterioramento atteso dei quozienti patrimoniali. In Europa, le ricapitalizzazioni hanno superato di poco le svalutazioni, ma da recenti proiezioni che ho visto questo trend potrebbe nettamente invertirsi quest’anno, a meno che i governi introducano nuovi piani di ricapitalizzazione. In assenza dei quali il settore bancario continuerà a contrarre il proprio bilancio, restringendo il credito.»
Che fare, quindi, per rafforzare a passo spedito la capitalizzazione delle banche? Puntare sulla crescita degli utili, Monsieur De Lapalisse. E come? Sostituendo la disciplina del mark-to-market con un bel mark-to-fantasy, che permetta alle banche di valutare a propria discrezione gli attivi problematici ed illiquidi, resi tali anche dalla ormai pervasiva sfiducia degli e (tra gli) investitori. E’ quanto si accinge a fare il FASB (Financial Accounting Standards Board), dietro furibonda pressione del legislatore americano. Secondo alcune stime, l’ammorbidimento previsto nei criteri contabili di valutazione degli attivi potrebbe fornire al settore creditizio una spinta agli utili del 20 per cento, e gli istituti in condizioni peggiori, come Citigroup, potrebbero tagliare le proprie perdite dal 50 al 70 per cento.
Resta da segnalare che, poiché è difficile che il mercato prenda in giro sé stesso per molto tempo, dopo una bella fiammata iniziale, incertezze, timori e sfiducia tornerebbero a prendere il sopravvento, ed avremmo l’ennesima scarpa che cade in questa tragedia che sta ormai volgendo in farsa, se non fosse per le drammatiche conseguenze sull’economia reale. Ma almeno con banche formalmente molto ben ricapitalizzate. Per finta, s’intende.