I mercati rischiosi ribaltano parte del rally di ricopertura successivo al vertice europeo della settimana scorsa, a causa della mancanza di dettagli operativi e dei nuovi rischi politici in Grecia.
La crisi di debito sovrano europeo resta la maggiore minaccia sui mercati. La crisi è cominciata due anni fa, quando il nuovo governo uscito dalle urne, guidato da George Papandreou, rivide fortemente al rialzo le stime di deficit sul Pil, dal 6 al 15,7 per cento. Da allora, la crisi si è allargata senza che i policymakers siano riusciti a fermare il contagio. Le incognite restano quindi legate alla fattibilità di un intervento effettivamente risolutivo, alla presenza di volontà politica per perseguire tale intervento ed alla capacità di implementazione del medesimo.
L’Eurozona ha le risorse e (in astratto) la volontà di risolvere la crisi, ma è stata finora inefficace ad eseguire gli interventi, soprattutto perché non opera ancora come una singola unità decisionale. La disintegrazione dell’Eurozona implicherebbe costi pari ad un multiplo di quelli necessari a gestire la crisi; le risorse derivano dalla presenza di risparmi domestici (di area) tali da permettere di gestire un rapporto deficit-Pil che a livello di Eurozona è di solo il 5 per cento, circa la metà di quello di Stati Uniti e Giappone. In Europa ci sono molte cose che potrebbero andar male (e andranno male): dalle resistenze politiche all’austerità alla lentezza nell’assunzione delle decisioni (che appaiono sempre reattive al comportamento dei mercati), alle resistenze alla perdita di sovranità nazionale, ed altro. Nel breve termine, l’onere di gestione della crisi ricadrà ancora sulla Bce, che proseguirà quindi ad acquistare i bond sovrani della periferia (peraltro senza la convinzione necessaria per piegarne al ribasso i rendimenti) in assenza di un piano alternativo da parte della Ue. La presenza di aspettative di inflazione stabili e di un cambio altrettanto stabile confermano che la Bce gode ancora di elevata credibilità sui mercati.
Nel resto del mondo vi sono sviluppi moderatamente positivi. I dati statunitensi sembrano finora confermare l’ipotesi di una crescita del quarto trimestre al 2,5 per cento, anche se i problemi di rientro dal deficit sembrano destinati a ripresentarsi all’approssimarsi della scadenza dei lavori del super-comitato congressuale (23 novembre), che al momento non ha trovato accordo sui tagli da effettuare. Nei paesi emergenti, tutti gli occhi sono puntati sulla Cina, dove l’inflazione è attesa calare in modo rapido nelle prossime settimane, creando potenziali margini di manovra per la politica monetaria.
Sul mercato del reddito fisso, nuovo repricing della curva dei rendimenti europei con spread periferici in forte allargamento a seguito degli spasmi politici greci, di un G-20 inconcludente, di un’asta spagnola piuttosto deludente e di rendimenti italiani a nuovi massimi pluriennali. L’ipotesi di uscita di un paese dall’euro resta altamente improbabile, malgrado le suggestioni di una certa pubblicistica poco avvezza a comprendere la realtà, perché le barriere tecniche e legali restano formidabili, le conseguenze dell’uscita sarebbero disastrose in termini di evaporazione dei depositi e di collasso dell’economia e gli eventuali benefici del deprezzamento della reintrodotta valuta nazionale sarebbero vanificati dalle fortissime tensioni sociali causate dalla violenta perturbazione inflazionistica e/o dalla elevatissima disoccupazione che ne conseguirebbero.
Sul mercato azionario, il flusso di notizie negative dall’Europa controbilancia migliori notizie su utili e dati macroeconomici, che mantengono il posizionamento degli investitori piuttosto negativo e suggeriscono l’esigenza di coperture implicite nella scelta degli investimenti. Ad esempio posizioni lunghe sull’indice DAX contro posizioni corte sull’Eurostoxx 50.
Le materie prime sono in rialzo in settimana, guidate quasi interamente dal petrolio. Sulla qualità Brent il premio espresso dai prezzi a pronti sulla prima scadenza futures è aumentato ulteriormente, verosimile segno di condizioni piuttosto strette dei mercati petroliferi globali, e riflesso di un basso livello di scorte ed offerta dovuto alla mancanza del greggio libico ed alla continua ascesa della domanda petrolifera dei paesi emergenti. Questo quadro rialzista è tuttavia controbilanciato dai rischi di eventi estremi impliciti nella crisi dell’Eurozona, che potrebbero impattare gravemente l’economia mondiale. Riguardo le materie prime agricole, le inondazioni in Thailandia sono destinate a mettere pressione rialzista al prezzo del riso, anche attraverso il mantenimento delle restrizioni all’export in essere in India, impegnata a contrastare pressioni inflazionistiche già elevate, soprattutto sull’alimentare. Tutto ciò, data l’importanza del riso (e più in generale degli alimentari) nel paniere degli acquisti dei paesi emergenti, potrebbe determinare un rialzo dell’inflazione su fine anno in questi paesi.