Il regolatore bancario austriaco ha istruito le proprie banche di limitare il credito alle controllate dell’Est Europa, in quella che appare come una probabile mossa per difendere il rating sovrano massimo di cui oggi Vienna gode. E naturalmente, come sempre accade quando ci sono di mezzo i mercati, l’iniziativa finirà col produrre quegli stessi effetti pro-attivi che si intendeva scongiurare.
Il regolatore bancario austriaco ha imposto a Erste Group, Raiffeisen Bank International e Bank Austria (controllata da Unicredit) di non prestare all’Est in eccesso rispetto a quanto raccolto localmente sotto forma di depositi e, nei casi di maggiore esposizione, di non superare il 110 per cento di tale rapporto. Le banche austriache dovranno adeguarsi alla maggior parte dei parametri di Basilea III da gennaio 2013, con ben sei anni di anticipo sulla scadenza prevista. Palese il tentativo del regolatore austriaco di evitare che le proprie banche vengano destabilizzate da un’ondata di insolvenze nell’Est Europa, e che ciò costringa il sovrano a ricapitalizzarle, con gravi rischi per la tripla A del paese, che sta già traballando, a giudicare dai rendimenti richiesti dal mercato.
Ma l’imitazione di questa condotta da parte di altre banche (Deutsche Bank stima che il loan book all’Est verrà tagliato di 2000 miliardi di euro nei prossimi 18 mesi) finirà col determinare una frana che si abbatterà su paesi la cui economia di fatto dipende dai finanziamenti delle banche dell’Europa occidentale (fino all’80 per cento, secondo le ultime stime). L’Austria è in prima fila tra i creditori più esposti, per l’equivalente del 70 (dicesi settanta) per cento del proprio Pil. Le banche austriache rappresentano il 40 per cento dei crediti in Croazia, 30 per cento in Romania, 25 per cento in Ungheria.
E proprio Budapest ieri è andata a Canossa, chiedendo a FMI e Ue una linea di credito “precauzionale” di 4 miliardi di euro, per fronteggiare la fuga di capitali che sta affondandone l’economia, col titolo di stato decennale giunto a rendere l’8,3 per cento e il biennale al 7,5 per cento, due punti secchi in più nell’ultimo bimestre, in un paese a crescita zero. In Bulgaria le banche greche ed italiane rappresentano il 60 per cento dei crediti. La situazione, in questi paesi, è aggravata dalla soverchiante presenza di mutui e debiti delle famiglie denominati in franchi svizzeri, retaggio dell’epoca felice in cui le valute dell’Est Europa si apprezzavano irresistibilmente ed il franco svizzero era il perfetto veicolo di funding per crearsi in casa un carry trade: qualcosa di simile a quanto accaduto a quegli italiani che, molti anni addietro, fecero mutui in Ecu per poi scoprirsi incravattati quando la lira uscì dallo SME, a inizio anni Novanta.
Questo è solo l’inizio di un credit crunch proteiforme, che rischia di produrre cumuli di macerie fumanti in giro per l’Europa, e non solo. Dire, come ribadito oggi dal capo di Bundesbank e membro della Bce, Jens Weidmann, che “alti tassi d’interesse possono essere un incentivo alle riforme”, significa aver capito assai poco della natura di questa crisi. Ma questa non è una notizia.