Procedendo nella ricerca dei gemelli dei nostri esponenti politici, oggi vi segnaliamo l’interessante evoluzione del concetto di privatizzazioni nel nostro paese, in soli due anni (scarsi), nelle parole di uno dei più ascoltati consiglieri economici del nostro premier. Perché solo gli sciocchi non cambiano mai idea, ergo la nostra classe politica è tra le più smart sul pianeta.
Accade che il Fondo Monetario Internazionale critichi la lentezza del nostro paese nel realizzare dismissioni di patrimonio pubblico. La constatazione è invero banalotta, oltre che di palmare evidenza. Il governo Renzi, come noto, ha giù rimodulato il programma di cessioni di cespiti patrimoniali pubblici, dallo 0,7% del Pil all’anno per un triennio ai più riflessivi 1,7-1,8% di Pil, cumulati da oggi al 2018. In effetti, lo stesso ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, da quando è entrato in via XX Settembre non perde occasione per ribadire che bisogna sfruttare la ormai leggendaria finestra di opportunità che ci è offerta dai mercati, e procedere con le dismissioni. Salvo poi non accadere nulla, il che fa pensare che questa finestra sia stata murata o comunque chiusa con catenaccio, anche se fervono i preparativi di alcune operazioni che dovrebbero vedere la luce più avanti nell’anno.
Ma che diceva delle privatizzazioni Yoram Gutgeld nell’ormai remoto 2013, quando il takeover renziano del Pd e del paese era ormai in fase avanzata? Una cosa di questo tipo:
«L’Italia ha bisogno di abbassare le tasse al più presto. Impossibile farlo con tagli intelligenti, perché ci vuole tempo. Stessa cosa per la lotta all’evasione. Dunque, cosa fare? L’unica cosa che si può fare subito è la vendita di patrimonio: ricavare 12-15 miliardi per cominciare ad abbassare l’Irpef sul primo scaglione di reddito. A questo punto le ipotesi possono essere diverse opzioni. Mi è venuta in mente subito quella di Eni e Enel perché è quella più facile»
In pratica, era il ragionamento, noi dobbiamo (dovevamo) subito tagliare l’Irpef (o meglio, dare i famosi cento euro al mese, poi diventati ottanta in modo non più intelligente dell’idea originaria) e poi la spesa pubblica. Per farlo, dobbiamo (dovevamo) negoziare con la Ue una sorta di deroga al buonsenso, perché appare evidente anche ad uno scolaretto che finanziare uno sgravio fiscale permanente con proventi una tantum (quelli da dismissioni) richiederebbe un immediato alcool-test.
Da qui, l’idea di dismettere Eni ed Enel. Geniale, no? Ma non sarebbero aziende in qualche modo strategiche per il paese, in particolare Eni? Mah, replicava Gutgeld:
«Io pensavo che fosse fondante per il centrosinistra la difesa dello Stato sociale e quella delle fasce deboli – replica il parlamentare Pd – Ma se vogliamo metterci anche le aziende energetiche, non mi oppongo. Era solo un esempio. Ripeto: si può sempre trovare la soluzione tecnica per ricavare risorse e mantenere dentro la presenza dello Stato»
Giusto, si può fare. Avanti veloce due anni, il governo Renzi è realtà da oltre un anno, le “privatizzazioni” (o meglio, le cessioni di pacchetti non di controllo di aziende pubbliche) non si sono praticamente ancora concretizzate ma il mitologico “calo delle tasse” sì, almeno nella mente di Renzi & C. Intervistato ieri da Bloomberg, Gutgeld (anzi no, il suo gemello) mantiene idee chiarissime ma in direzione opposta a quella del 2013, dimostrando tutta la sua grande duttilità al variare degli scenari strategici. Sulle privatizzazioni,
«Stiamo parlando di cose che valgono pochi miliardi. Abbiamo bisogno di fare di più in alcuni settori per aiutare a creare più competizione, ma le privatizzazioni non risolveranno in alcun modo il problema del debito dell’Italia»
Su Eni, in particolare,
«Non penso ci sia un piano in questo momento, e finanziariamente parlando la privatizzazione non ha molto senso. In questo momento l’idea di tenere la partecipazione è probabilmente una buona idea»
Ottimi e condivisibili concetti. Infatti Eni ha un dividendo molto alto, anche se di recente ridotto (in modo molto responsabile) per recuperare risorse dopo il crollo del prezzo del greggio. Quello che lascia un filo perplessi è perché due anni fa bisognasse vendere Enel ed Eni per “ridurre le tasse in attesa di tagliare la spesa”, ed oggi siamo così attenti agli aspetti di razionalità finanziaria dell’operazione. Forse perché nel frattempo la spending review ha dispiegato i suoi benefici effetti. Ah no, aspetta…E se sono bruscolini, per quale motivo i proventi da privatizzazioni sono stati inseriti nel DEF su reiterata pressione della Ue e degli organismi internazionali?
Quanto all’idea di “privatizzare per aiutare a creare più competizione” è semplicemente fantastica, dovrebbe essere la stella polare di ogni processo di dismissione pubblica degno di questo nome, in effetti. Ma se le cose stanno in questi termini, Gutgeld (e non solo lui) dovrebbe chiedersi perché dismettere una quota di Poste Italiane che sarebbe rappresentativa dell’intero coacervo di attività del gruppo, inclusa quella bancassicurativa, che da sempre rappresenta il sussidio all’attività di recapito e logistica. Che mercato stiamo andando ad aprire con una simile “privatizzazione” (secondo l’italica neolingua)? Mistero. Aspettiamo risposte dai gemelli Gutgeld.
Uno dei quali, sempre nel corso dell’intervista di ieri a Bloomberg, ci informa appunto che
«Il governo deve ancora decidere se privatizzare le ferrovie nella loro interezza, o separare l’infrastruttura dal resto degli attivi aziendali»
Ecco, appunto. La concorrenza prima di tutto. Anche tra i gemelli Gutgeld.