Sul Sole, della serie “conoscere per deliberare”, Claudio Tucci presenta una comparazione tra i costi di risoluzione dei rapporti di lavoro nei maggiori paesi europei, da cui si evince che in Italia siamo più generosi dei nostri concorrenti, in termini di tutele economiche nei licenziamenti illegittimi. Ieri, un altro dato di Istat ci ha fornito l’ennesimo “suggerimento” del perché in questo paese, al momento, la generazione di posti di lavoro avviene ormai pressoché esclusivamente dal lato del tempo determinato. Ma voi pensate che i nostri legislatori ci arrivino?
Scrive Tucci:
«In Spagna si parte da un minimo di 33 giorni di paga per ogni anno di servizio fino a un massimo di 24 mesi di indennizzo nel caso in cui un lavoratore venga licenziato illegittimamente. Anche in Germania, per recessi” di personale per motivi operativi, il ristoro economico inizia da mezzo mese per ogni anno di anzianità, arriva poi a 12 mesi, elevabili a 15 o 18 in funzione di età e permanenza presso l’azienda. E ancora in Gran Bretagna l’indennizzo monetario spetta agli addetti con un minimo di due anni di anzianità: qui il parametro base è la “paga settimanale”, che da aprile 2017 vale a 565 euro (479£) e la compensazione totale ottenibile è di circa 7,8 mensilità (16.942 euro-14.670£)»
Ancora più interessante, come potere vedere qui sotto, è la “pendenza” della curva degli indennizzi. Quella italiana è la più ripida, cioè da noi il valore massimo del ristoro monetario è intorno ad anzianità di 10 anni, oltre ad essere (come detto) comparativamente maggiore che altrove.
E che vorrebbero fare, i nostri baldi legislatori de sinistra? Aumentare il costo per le imprese italiane. Nello specifico, la proposta (appoggiata dal Pd Cesare Damiano), prevede di portare l’indennizzo dalle attuali 4-24 mensilità (in assenza di conciliazione), a 8-36 mensilità. A ciò si somma il fatto che, nella legge di bilancio, è in discussione un ulteriore aggravio a carico delle imprese:
«Inoltre, gli imprenditori sono tenuti a pagare all’Inps un contributo una tantum all’atto di licenziamento per finanziare il trattamento di disoccupazione (Naspi), che, ovviamente, aumenta il costo del licenziamento (varia da un minimo circa 50 euro a un massimo di quasi 1.500 euro, che peraltro, da gennaio si raddoppierà nei casi di licenziamento collettivo»
Quindi, pare che la direzione di marcia sia quella di aumentare in modo sensibile i costi di licenziamento, soprattutto quelli diversi dal finanziamento della Naspi, che è invece cosa buona e giusta. Ora, una domanda per i più analitici e vispi tra voi: come reagiranno le imprese, all’aumentare dei costi di risoluzione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato? Forse decideranno di passare, ove possibile, al tempo determinato? Ah, saperlo.
Mentre voi riflettete su questo fondamentale quesito, passiamo al recente dato Istat, contenuto nella ricerca su “Condizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie“, pubblicato il 6 dicembre.
Come potete osservare, in media ci sono 5-6 punti percentuali di cuneo fiscale tra il tempo indeterminato ed il tempo determinato. Anche qui, domanda per i lettori vispi ed analitici: quale tipologia contrattuale, escludendo il nero, tenderà ad essere privilegiata dalle imprese? Ah, saperlo.
Ecco, se vi chiedete perché le assunzioni stanno avvenendo quasi esclusivamente dal lato del tempo determinato, da un anno a questa parte, dopo la scadenza degli inutili sussidi renziani per le assunzioni a tempo indeterminato con Jobs Act, guardare questi numeri è un buon punto di partenza. Ma che ve lo dico a fare? Tanto è già pronto un altro bel sussidio triennale, no?
E se in tutto ciò, per tentare di invertire la tendenza, i nostri legislatori scoprono che occorre rendere più oneroso il tempo indeterminato, nei suoi firing costs, anziché mettere più risorse sulle politiche attive del lavoro, forse (ma solo forse) potrete capire perché questo paese resta sempre in direzione ostinata e contraria alla realtà. Agli antropologi del futuro il compito di scoprire perché.