Reddito di cittadinanza, la trappola della congruità

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

più volte (qui e qui, ad esempio) questi pixel hanno evidenziato i rischi della normativa relativa all’incontro domanda-offerta di lavoro di incartarsi con la cosiddetta “offerta congrua”.

In effetti, l’esperienza insegna che di offerte congrue propriamente dette, come regolate dalla normativa, non se ne vede nemmeno l’ombra.

I requisiti soggettivi ed oggettivi necessari a configurare la congruità dell’offerta non sono per nulla semplici da determinarsi.

E, infatti, se già l’offerta congrua per i disoccupati percettori di Naspi è una mosca bianca, per i beneficiari del Reddito di Cittadinanza è una chimera.

Il tentativo di stretta

Non è un caso, dunque, se si prova a “forzare” con la consueta “stretta”, che, nel caso di specie consisterebbe nell’idea di permettere direttamente ai datori di lavoro privati di proporre ai percettori di RdC un’offerta congrua, senza passare dal centro per l’impiego, in modo che in caso di rifiuto del percettore il datore poi comunichi l’evento al centro per l’impiego e questo segnali all’Inps il lavoratore per l’adozione del provvedimento di decadenza.

L’idea è contenuta in un emendamento al “Decreto aiuti”; una norma che probabilmente non vedrà mai la luce per non rendere ancor più acuminati gli spigoli del difficile rapporto tra partiti della maggioranza che sostiene il governo.

Tuttavia, il tentativo di emendamento è la conferma del malfunzionamento del sistema basato sull’offerta congrua più volte qui segnalato.

La soluzione pensata nell’emendamento, comunque, non appare certo la strada corretta da seguire. Essa infatti, non pare incidere sull’elemento della congruità, ma di fatto mira ad affidare al datore di lavoro il compito di qualificare come “congrua” l’offerta di lavoro.

I due usi della “congruità”

Fermiamoci un attimo, Titolare. E chiediamoci: a cosa serve l’offerta “congrua”, in particolare nell’ambito del RdC? Le risposte sono due:

1) a far decadere i beneficiari;
2) ad indurre i mediatori della domanda e dell’offerta ad un incontro il più adeguato possibile tra la professionalità cercata dal datore e quella in possesso del lavoratore.

Se si va in cerca della risposta 1), allora, Titolare, possiamo affermare che “va bene tutto”, come pensare di “subappaltare” ai datori il compito di aiutare a cancellare i percettori. In fondo, sarebbe semplice: basta un accordo politico-imprenditoriale grazie al quale molte aziende di un certo territorio propongano offerte congrue a centinaia di chilometri di distanza dalla residenza del lavoratore (come il sistema dell’offerta congrua consente) e il gioco è fatto. I rifiuti sarebbero oggettivamente moltissimi e si otterrebbe la grande soddisfazione di vedere migliaia di decadenze dal Rdc.

Però, Titolare, contestualmente le aziende continuerebbero a restare senza incrocio tra domanda e offerta.

Né affidare loro la possibilità di proporre direttamente ai lavoratori l’offerta congrua, saltando i centri per l’impiego, rende tale attività lineare, semplice o effettivamente idonea ad eliminare l’intervento degli uffici pubblici. Infatti, la congruità dell’offerta, e cioè in particolare la distanza tra sede di lavoro e residenza e soprattutto il rapporto tra settore lavorativo ed esperienze del lavoratore, cambiano anche di molto in relazione al fatto che si tratti di prima o di seconda offerta, oppure di prima offerta a seguito del rinnovo del RdC.

Tutti dati che il datore può conoscere solo se li chiede all’Inps o ai centri per l’impiego, laddove intenda strutturare un’offerta rispettosa davvero di tutti i moltissimi dettagli necessari perché sia legittima.

Il datore, dunque, dovrebbe comunque rivolgersi agli uffici pubblici e/o affidarsi in tutto o in parte ad un consulente del lavoro per registrare l’offerta, asseverarla come effettivamente congrua, registrare formalmente il rifiuto e comunicarlo poi ai centri per l’impiego. Quanti datori sarebbero disposti ad impiegare tempo e denaro in queste attività, per poi, comunque, non ottenere quel che davvero interessa, cioè la forza lavoro necessaria?

Ripensamento radicale

Se la soluzione fosse la 2), allora tutto cambierebbe e potremmo tornare, Titolare, all’effettivo oggetto di questa disamina.

Confermato, com’era inevitabile, che l’offerta “congrua” non funziona, anzi, secondo accorta dottrina nemmeno esiste, forse risulterebbe opportuno ripensare radicalmente proprio questo istituto e rivedere dalla base la normativa che la regola.

D’altra parte se il mercato del lavoro è opportuno sia il luogo dove la domanda di professionalità espressa dalle imprese si incontra con le competenze dei lavoratori, condizionare la continuità della percezione della Naspi o del RdC all’accettazione di un’offerta in base ad elementi meccanici ed astratti, tendenti ad attenuare l’odore di “lavoro coatto” che resta sempre sotto l’offerta “congrua”, è fondamentalmente erroneo.

L’offerta congrua non pare debba essere uno strumento per spingere il lavoratore ad accettare la domanda del datore. Se una delle due parti di un contratto connesso ad elementi di forte fiduciarietà non è messa nelle condizioni di accettare serenamente le condizioni, in ogni caso il reclutamento posto in essere risulterebbe a rischio di poca efficienza.

Un lavoratore indotto a spostarsi di centinaia di chilometri per lavorare, in un Paese con enormi problemi di politiche delle abitazioni e di trasporto, può ben decidere di inabissarsi nel “nero” o anche preferire di rimetterci ammortizzatori e benefici, se il costo da affrontare per lavorare non fosse sostenibile. Non ci vuol molto a capirlo.

Per altro verso, chi si occupa di intermediazione sa benissimo che i datori di lavoro tendono quanto più possibile a cercare lavoratori che abbiano radici stabili e vicine al luogo di lavoro, per ovvi motivi di fidelizzazione e praticità anche nella gestione di turni, sostituzioni e organizzazione.

Per questo i datori sono ben poco propensi a presentare ai centri per l’impiego proposte di lavoro complete dei dati utili per qualificarle come congrue.

Se si vuole creare davvero una “condizionalità” che funzioni, occorrerebbe invertire totalmente il processo. Attualmente, i beneficiari di ammortizzatori sociali e RdC ricevono le loro indennità immediatamente a seguito dell’approvazione delle loro domande; la “condizionalità”, cioè l’applicazione di decurtazioni progressive o la decadenza dai benefici, scatta solo eventualmente se non si presentino alle convocazioni dei centri per l’impiego, non accettino proposte “congrue” lavorative o formative o se non rispettino il minimo orario di frequenza ai corsi.

Controllo stretto delle azioni di ricerca previste

Sarebbe più efficiente, invece, condizionare l’assegnazione mensile dell’ammortizzatore o del RdC alla comprova che nel corso del mese il lavoratore abbia svolto tutte le azioni di ricerca attiva di lavoro previste dai patti sottoscritti coi centri per l’impiego, disponendo che in caso contrario quella mensilità “salti” e che dopo un certo numero di mancati pagamenti dovuti a inerzia del lavoratore il beneficio attribuito si estingua.

Ma, ciò richiederebbe un coordinamento strettissimo tra Inps e centri per l’impiego, mentre i sistemi informativi oggi non consentono ai due sistemi nemmeno di conoscere reciprocamente lo stato delle pratiche (i Cpi non sanno esattamente se e quando le domande di Naspi o RdC sono accolte e da quanto partono i pagamenti, l’Inps non sa esattamente quando siano adottati eventuali segnalazioni di condizionalità dei Cpi).

Se si vuole davvero puntare all’incontro tra domanda e offerta, occorre pensare la condizionalità come elemento accessorio ed eventuale e non certo come obiettivo.

Invertendo l’ordine dei processi, facendo in modo che i pagamenti delle indennità seguano alla verifica delle azioni di ricerca di lavoro, il problema della qualificazione dell’offerta di lavoro come congrua o meno diverrebbe meno stringente. I lavoratori sarebbero spinti a cercare il lavoro realmente, con o senza l’ausilio dei centri per l’impiego o delle agenzie di somministrazione, andando verso lavori anche logisticamente possibili e rendendosi forse più disponibili ad azioni di miglioramento della professionalità o riqualificazione professionale, per proporsi in settori nuovi e più appetibili.

Di conseguenza l’offerta “congrua” potrebbe avere caratteri molto meno stringenti e sostanzialmente limitarsi al rispetto di standard minimi contrattuali, normativi e retributivi, valevoli nei territori.

Forse, addirittura, si potrebbe fare del tutto a meno di riferirsi alla congruità dell’offerta quale elemento finalizzato all’applicazione della decadenza dai benefici, per abbracciare il concetto, invece, di adeguatezza e compatibilità tra lavoro e mansioni richieste e competenze del lavoratore, affrontando anche i problemi di una formazione permanente sul territorio utile a migliorare le competenze esistenti o a supportare datori e lavoratori nella fase dell’inserimento lavorativo, favorendo anche contratti a causa mista lavorativa e formativa, come l’apprendistato.

Tutte questioni di cui si parla da molto tempo e soluzioni già a loro volta oggetto da anni di riflessioni e studi, senza che si sia fin qui riusciti a venir fuori dalla buca dell’offerta congrua come strumento di condizionalità.

Foto di Steve Buissinne da Pixabay

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