di Luigi Oliveri
Egregio Titolare,
quando si parla di proporre ai destinatari del reddito di cittadinanza tre “offerte di lavoro” congrue, il cui ingiustificato rifiuto implica la perdita del sussidio, esattamente cosa si intende? In questi giorni, il tema è particolarmente incentrato sulla questione relativa a “chi” avrà il compito di proporre le opportunità di lavoro. Secondo il Governo, la competenza sarà dei centri per l’impiego, che per questa ragione dovranno essere rinforzati (e, per far funzionare davvero il sistema, non poco).
C’è, tuttavia, chi legittimamente dubita dell’efficacia di questa visione, ponendo l’accento – fondatamente – sulla circostanza che il rafforzamento quantitativo dei servizi pubblici per il lavoro non necessariamente faccia scattare in via automatica anche la veicolazione delle domande di lavoro delle imprese verso i centri per l’impiego.
Il Prof. Michele Tiraboschi insiste proprio sull’elemento qualitativo: l’incrocio domanda/offerta non è una mera pratica burocratica di invio formalizzato di curriculum ad un’azienda che manifesti un fabbisogno di lavoratori:
Il problema non è che "le offerte di lavoro non si sono". Semplicemente non passano dai centri per l'impiego. Perché, come aveva intuito Bruno Trentin, è finita l'epoca del “lavoro astratto”, del lavoro senza qualità. Le imprese oggi cercano (altrove) competenze e professionalità pic.twitter.com/nAOMxy2hU1
— Michele Tiraboschi (@MicheTiraboschi) October 5, 2018
È certamente vero: alle imprese occorrono competenze, non elenchi di lavoratori. Ecco perché cercano “altrove”. Questa evidenza renderebbe di per sé estremamente problematico il raggiungimento di uno degli obiettivi da considerare come caposaldo del reddito di cittadinanza: il suo condizionamento all’accettazione della proposta di lavoro. È chiaro che se presso i centri per l’impiego non transitano le domande di lavoro delle imprese, i centri per l’impiego avranno ben poche opportunità di lavoro da proporre.
Eppure, opportunità di lavoro certo non mancano. Basta dare un’occhiata al Rapporto annuale sulle comunicazioni obbligatorie 2018, elaborato dal Ministero del lavoro: nel 2017 vi sono state 12,8 milioni di attivazioni, delle quali 2,2 in somministrazione (nota anche come lavoro “interinale”).
Se i centri per l’impiego sono capaci di intermediare solo il 3,4% del totale, ciò significa che hanno consentito a disoccupati di reperire 435.200 lavori: un po’ poco per una platea di possibili beneficiari del reddito di cittadinanza, pari a 6,5 milioni di persone. È anche vero che non tutti i destinatari del reddito di cittadinanza saranno disoccupati (il reddito riguarderà pensionati o lavoratori sotto occupati a basso reddito), ma la sproporzione appare comunque rilevante.
Come dice, Titolare? Che fare allora dei centri per l’impiego visto che i privati, le agenzie, hanno una capacità molto maggiore, dimostrata dai numeri della somministrazione?
In effetti, la somministrazione rappresenta un bel 17% del totale dei movimenti (fermo restando che mentre le comunicazioni obbligatorie da somministrazione sono tracciabili, quelle da incroci domanda/offerta dei centri per l’impiego no, quindi quest’ultimo dato è solo una stima). E 2,2 milioni di attivazioni di somministrazione appare un numero potenzialmente molto più adeguato al disegno di condizionare il reddito di cittadinanza all’accettazione di proposte di lavoro.
La risposta alla domanda, quindi, se affidarsi davvero ai centri per l’impiego o lasciar fare al mercato sembra avere la sua risposta: inutile investire sui centri per l’impiego, meglio servirsi dell’operato del privato.
È, però, necessario approfondire meglio. Bisogna considerare che rispetto ai 10,6 milioni di attivazioni di lavoratori del 2017 (al netto delle somministrazioni) il rapporto è di 1,75 per lavoratore. Infatti, i lavoratori interessati sono stati 6,1 milioni.
Il mercato, come è ovvio, è caratterizzato quindi da una tendenza piuttosto forte di ingressi e reingressi della stessa platea di lavoratori. In sostanza, come dimostra il dato ormai costante da anni dei circa 3 milioni di disoccupati, la forte (per fortuna) movimentazione di rapporti di lavoro interessa per la gran parte chi già lavora (perché cambia lavoro o cessa, per dimissioni, o pensionamento o licenziamento o raggiungimento del termine del rapporto a tempo determinato e si reimpiega): l’assorbimento dei disoccupati e l’accrescimento degli occupati è molto più sottile e lento.
Si intuisce, quindi, come sia comunque difficile attivare tre proposte di lavoro per milioni di destinatari del reddito di cittadinanza. Proprio perché quel che afferma il Prof. Tiraboschi è corretto: le aziende cercano professionalità, non carte o liste e sono anche portate a “rubarsi” i lavoratori tra loro, invece che limitarsi a cercare solo e sempre persone che non lavorano.
È, dunque, da considerare che dei 6,1 milioni di persone attivate nel 2017, i disoccupati siano una piccola parte. Potrebbero, allora, i privati, ed in particolare le agenzie, fare e bene l’attività che i centri per l’impiego sin qui non sono stati in grado di compiere, così da lasciar pensare ad un maggior successo della condizionalità del reddito di cittadinanza?
Difficile. Non perché le agenzie non siano in grado, ma perché vale sempre quanto ha rilevato il Prof. Tiraboschi: esse concentrano a maggior ragione l’attenzione su lavoratori fortemente spendibili per le aziende loro clienti, che pagano per la missione veloce ed efficace di un lavoratore dotato delle competenze e delle capacità necessarie.
Il target dei lavoratori (come anche delle imprese clienti) gestito dalle agenzie appare piuttosto elevato e, come tale, quindi abbastanza lontano da quello dei destinatari del reddito di cittadinanza.
Peraltro, non deve sfuggire un dato estremamente importante: dei 2,2 milioni di somministrazioni attivate, il 71,6% ha una durata contenuta fino ai 30 giorni di lavoro; solo il 16,1% va dai 31 ai 90 giorni; solo l’8,3% va dai 91 ai 365 giorni:
È chiaro, dunque, che la stragrande parte delle somministrazioni (il 26,4% delle quali è per un solo giorno di lavoro) riguarda per lo più sostituzione di ferie o assenze giustificate o particolari “picchi” di breve durata, come dimostra il fatto che il 63,8% delle somministrazioni sia concentrato nei Servizi ed il 35% nell’Industria.
Ci sarebbe, allora, da capire, caro Titolare, se per proposta “congrua”, quella, cioè, che se rifiutata fa decadere dal reddito, sia sufficiente un contratto di lavoro di pochi giorni. Se la risposta fosse affermativa, le agenzie potrebbero entrare molto bene in gioco. Se, come sospettiamo, non lo fosse e la congruità fosse legata ad una durata superiore ai 6 mesi almeno (dispositivi come Garanzia Giovani fanno scattare premi ed incentivi per contratti di durata appunto di almeno 6 mesi), allora occorre altro.
Il problema, sulla base di questi dati, si deve concentrare non tanto sul “chi” proporrà le opportunità di lavoro, ma esattamente sul “cosa”, cioè proprio le opportunità di lavoro. Se queste mancano, i servizi per il lavoro, tanto pubblici, quanto privati, non avranno nulla da proporre. E non è un caso che le agenzie di somministrazione siano quasi del tutto assenti nel Sud: ciò accade evidentemente perché vi è una bassissima capacità di produrre e generare lavoro. Per la stessa ragione, le missioni in somministrazione sono concentrate quasi solo al Nord:
Perché i privati si attivino, allora, allo scopo di intercettare domande di lavoro anche da parte di imprese non loro clienti, per durate maggiori della media molto breve delle loro missioni, per lavoratori meno qualificati di quelli che trattano ed in territori del Paese di solito da esse trascurati, occorrerebbero ovviamente regole di ingaggio con doverosi e consistenti compensi finanziari. Il privato potrebbe certamente agire con la flessibilità e le competenze proprie: ma le risorse pubbliche da trasferirgli sarebbero ingenti. E non sarebbe da dimenticare che un servizio, quando ha un fine pubblico (lo si condivida o meno nel merito) ed è finanziato da risorse pubbliche, resta pubblico anche se gestito da un privato (le concessioni autostradali insegnano).
Verrebbe da concludere che “chi” propone le offerte di lavoro sia quasi indifferente, se non fosse che comunque il soggetto incaricato deve agire ovviamente con mezzi, competenze e capacità di alto livello.
La vera questione sta comunque nel “cosa”, cioè nel lavoro da offrire. Ma, perché vi sia lavoro “congruo” da offrire occorre prima che l’economia giri, le imprese possano disporre di risorse da investire, ricevano ordinativi e possano davvero assumere. Nello stesso tempo il sistema dei servizi per il lavoro andrebbe immaginato in altro modo: non solo uffici che ricevono domande e mandano curriculum, ma che interagiscano attivamente col mondo delle imprese, della scuola, dell’università della formazione, per contribuire alla programmazione, all’aggiornamento e alla creazione delle competenze.
Un programma di inserimento lavorativo dei disoccupati dovrebbe partire da un disegno, quindi, di medio periodo che non investa solo su una parte del sistema.
Ma, caro Titolare, qui stiamo parlando di politiche del lavoro. Però, il reddito di cittadinanza somiglia tanto ad una politica sociale e di sussidio, alla quale si “appiccica” in maniera un po’ disomogenea anche l’impegno a cercare lavoro. La confusione dei due piani è probabilmente l’equivoco di base che svia dall’analisi dei reali problemi e quindi dall’immaginazione delle soluzioni più corrette.
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Ci sono tanti spunti, in queste riflessioni di Luigi. E anche qualche aporia. Ad esempio, si tende a ritenere che la somministrazione riguardi lavoratori dotati di mercato. E tuttavia, spesso i loro contratti sono molto brevi, anche dell’ordine di giorni, il che sembra suggerire che spesso si tratti di soggetti a scarsa qualificazione. Essere a bassa qualificazione può certamente consentire di avere un mercato, se c’è domanda per le prestazioni di questi soggetti. E implica che le agenzie interinali private non debbano sudare molto per collocarli. Ma se le cose stanno in questi termini, il concetto di “congruità” dell’offerta di lavoro, nel senso di lavoro di durata non effimera, diventa centrale a tutta la costruzione, e dovrebbe a rigor di logica estendersi anche ai lavoratori oggi in somministrazione, altrimenti questi ultimi finirebbero ad essere lavoratori di serie B rispetto ai fortunati che andranno a prendere 780 euro mensili perché non ci sono lavori “congrui” per loro. Un po’ come Bertoldo che non trovava albero idoneo a cui essere impiccato. E ribadiamolo ancora: se ci sono aree del paese in cui il lavoro semplicemente manca, sia esso “congruo” o meno, e non saranno né pubblico né privato a farlo comparire. Quindi, è come dice Oliveri nel paragrafo finale: questo cosiddetto reddito di cittadinanza sarà semplicemente un reddito di inclusione finanziato con maggiore disponibilità di fondi a bilancio pubblico. Ma in quel caso dovrebbe anche pagare assai meno di quanto previsto dai suoi proponenti, altrimenti causerà danni molto gravi, soprattutto in regioni già oggi prive di un mercato del lavoro funzionante e di legalità nei rapporti di lavoro. (MS)