Mentre la Francia attende il programma e la squadra di governo del quinto premier del secondo mandato presidenziale di Emmanuel Macron, si moltiplicano prese di posizione e commenti che indicano in modo inequivocabile il percorso italiano dell’Esagono. Cioè il cammino verso la presa di coscienza che c’è un problema di conti pubblici, e che serve accantonare i miraggi e i proiettili d’argento.
Il problema è che, prima di arrivare a quel punto, si passerà attraverso le caratteristiche fasi del lutto, che partono con negazione della realtà e di rabbia, distillate in programmi politici e pensosi editoriali. La differenza principale tra italiani e francesi è che i secondi si incazzano, come diceva Paolo Conte, e di conseguenza la fase della futile resistenza alla realtà può durare a lungo, con relativa amplificazione del danno al tessuto economico e sociale, non meno che a quello civile.
Sulle barricate c’è sicuramente il leader de La France Insoumise (alla realtà, appunto) Jean-Luc Mélenchon, che ha quella caratteristica capacità di accusare di collaborazionismo col nemico di classe chiunque, a sinistra, non la pensi come lui. Un modello antropologico molto preciso, di quelli che di solito creano problemi piuttosto gravi a un paese. Ne abbiamo molti anche in Italia, anche se mediamente meno virulenti.
Delle proposte di politica economica e di bilancio de La France Insoumise ho già scritto in passato, in occasione delle elezioni politiche. Vorrei qui solo rimarcare che Mélenchon, molto italianamente, ha già detto che il problema del debito pubblico francese è dei non residenti, che ne posseggono il 60 per cento. Non ne sarei così certo, ma transeat.
Nel programma del suo partito è scritto in termini molto espliciti che la Banca centrale europea deve trasformare il debito pubblico da essa posseduto. Attenzione: trasformare, non cancellare. Cioè farlo diventare perpetuo e a tasso zero. Credo si chiami moneta, ma posso sbagliarmi.
“A noi ci ha fregato l’euro”
Ma è sulla stampa transalpina che affiorano le prime vere perle, sotto forma di editoriali che tentano di spiegare perché l’euro è stata una sciagura per la Francia. Mi è stato segnalato questo, comparso su Le Figaro (serve iscrizione gratuita per leggerlo tutto). In sostanza, si inizia a sospirare sulla perdita delle svalutazioni competitive (o di semplice aggiustamento) del franco, che sono state tredici tra il 1944 e il 1987.
Con l’euro, i francesi hanno avuto accesso al mondo del marco, fatto di bassi tassi d’interesse, e mal gliene incolse. Il crollo del tasso d’interesse reale è stato il veleno nella coppa transalpina, visto che si osserva che, tra il prima e il dopo dell’euro, il tasso d’interesse del debito sovrano decennale è diminuito di oltre sette punti percentuali mentre l’inflazione si è ridotta solo di 2,5 per cento. Il calo del tasso reale, di ben il 4,5 per cento è stato la maledizione che ha perso i francesi.
E quindi, scoppia l’inflazione reale. Dall’introduzione dell’euro, i prezzi medi delle abitazioni francesi sono aumentati di 2,7 volte, secondo l’Insee. Dieci volte il tasso di inflazione al consumo. Tutti a fare mutui per la prima e la seconda casa, vergogna. C’è il dettaglio che il boom immobiliare ha colpito praticamente tutto il mondo, il che farebbe pensare a un eccesso di liquidità globale (ma va?). Ma non solo il settore privato è stato colpito dal sortilegio dell’euro:
Lo Stato francese ha approfittato per lasciare andare alla deriva senza vergogna il debito pubblico. Questo è salito da 363 miliardi di euro nel 1980 (convertendo i franchi dell’epoca in euro) a 3305 miliardi nel 2024, di cui 2000 miliardi accumulati nelle ultime due decadi. L’impatto è ancora più spettacolare considerando che il prodotto interno lordo (Pil) del paese è rimasto indietro, passando da 1058 miliardi a 2919 miliardi. Ogni volta che il PIL aumentava di 100 miliardi di euro, il debito è quindi progredito di 159 miliardi. Ecco cosa si chiama “crescita a credito”.
Questa sarebbe la prima “trappola” dell’euro. La seconda, si legge in questo editoriale dal sapore italiano dei tempi che furono, è l’assenza di controllo sulla moneta unica, che impedisce gli aggiustamenti necessari a sanare gli squilibri interni ed esterni. Ora, in Italia abbiamo gente che su questa scemenza ha costruito carriere politiche. È l’antica canzoncina il cui ritornello dice “se non puoi svalutare la moneta, svaluterai il lavoro”.
Ovviamente, questa è la considerazione di chi vende olio di serpente basandosi solo sulle variabili nominali. Gli aggiustamenti dell’economia avvengono su base necessariamente reale, non nominale. Il che vuol dire che il lavoro deve comunque svalutarsi, al netto dell’inflazione, per recuperare competitività. Svaluto, i prezzi all’importazione aumentano, i salari vengono erosi in termini di potere d’acquisto. Non è difficile, tranne che sui social, dove da sempre c’è chi vende il Colosseo e chi se lo compra felicemente.
Niente tassi bassi, siamo francesi
Quindi, contiamo gli “argomenti” formulati da diverse parti: il problema del debito francese è dei non residenti che lo posseggono; la Francia è stata fregata dal crollo dei tassi d’interesse reali, che hanno portato pubblico e privato a spendersi l’anima; la Francia non controlla l’euro, quindi non può recuperare competitività svalutando.
Ora, possiamo dire che, nella prima fase successiva all’introduzione della moneta unica, è verosimile che il tasso reale sia sceso in alcuni paesi in conseguenza del calo del premio al rischio inflazionistico. Una Bce vista come una sorta di Bundesbank rappresentava una garanzia in tal senso. Poi, ci sono stati gli eccessi veri di liquidità globale, non solo europea, e i reiterati salvataggi dei mercati finanziari orchestrati dalla Fed e dalle altre banche centrali. Poi, il Covid col denaro dagli elicotteri. In questa sequenza, i francesi sarebbero “caduti in trappola” credendo alla notizia grandemente esagerata della morte dei tassi reali positivi, e giù a spendere. Crapuloni.
Possibile anche questo: a un certo punto, il mondo e l’Europa parevano rapiti dalla sindrome MMT, quella degli stampatori compulsivi di moneta. Alcuni quindi ci sono caduti con piedi e scarpe. Resta il fatto che la spesa pubblica francese su Pil è al 57 per cento, record europeo e non solo. Da sinistra ci si lamenta che sono le entrate a non aver tenuto il passo della spesa. È un’opinione, pur se ideologica.
Ma se in Francia c’è chi confusamente rimpiange i bei tempi del premio al rischio inflazionistico sui rendimenti, e sulla disciplina del tasso reale, anche se al contempo si invocano svalutazioni competitive, cioè riduzione dei tassi reali con conseguenti perdite di potere d’acquisto, penso potranno essere accontentati: niente come un bell’attacco speculativo per alzare i tassi reali di un paese.
Tuttavia, considerazioni come quelle espresse nel commento di Le Figaro, mi pare evidenzino che ci sono popoli e nazioni che non possono permettersi bassi tassi d’interesse reali senza perdersi. Sarà una forma di auto-razzismo? E comunque, vale sempre la regoletta: costo del debito superiore alla crescita nominale, uguale aumento spontaneo del rapporto debito-Pil. La Francia ha goduto, praticamente fino a ieri, di un costo del debito estremamente basso, una sorta di “premio alla diarchia” franco-tedesca.
Fine della diarchia europea
La Francia per lunghi anni ha potuto godere di un basso indebitamento pur avendo sistematico deficit primario, proprio per l’effetto di palla di neve positiva. Non ha dovuto soffocare la crescita con reiterati avanzi primari, avvitandosi. Lo ha fatto per altre vie, però, espandendo la spesa. Nel frattempo, la crescita nominale ha finito col fermarsi, e la palla di neve è diventata avversa. Ora, qualcuno dirà -italianamente- che l’espansione della spesa è servita a comprare la pace sociale. Pessimo lavoro, visti i risultati tra banlieu e campagna.
Anche la vicenda francese certifica ad nauseam l’inadeguatezza dei meccanismi di controllo di deficit e debito creati dalla Ue. Nel senso che ci si è fatti bastare l’aspetto di equilibrio contabile, cioè puramente quantitativo, e non anche quello qualitativo del danno alla crescita che alcune manovre correttive hanno prodotto. Ma questo l’ho già detto parlando dei guai italiani, e ora tocca alla Francia, anche se Parigi ha goduto forse di maggiore benevolenza (Jean-Claude Juncker dixit), ma esattamente perché parte della diarchia con la Germania. C’est fini.
Nel frattempo vieni avanti, Lecornu.
(Immagine creata con ChatGPT)



