Più quote per tutti

Se pensate che quote rosa ed affirmative action assortite siano piaghe caratteristiche delle decadenti democrazie occidentali, leggete quanto scritto da Federico Rampini nel suo ultimo libro, L’impero di Cindia:

Ajay Dixit appartiene all’immensa corporazione dei Babu, la burocrazia indiana, quindi di servizi pubblici se ne intende. Quando mi invita a cena a New Delhi, il suo primo avvertimento è questo: “Se vi ammalate in questo paese, prima di farvi visitare in un ospedale di Stato chiamatemi, controllerò il cognome del medico per capire di che casta è. Se è un Dalit, non ci si può fidare. Può avere avuto quel posto non perché è competente, ma per riempire le quote riservate agli intoccabili.
Anche in questo caso l’arretratezza e la modernità indiana si mescolano e si sovrappongono. Da un lato c’è il tremendo retaggio storico delle caste. Dall’altro, sul modello degli Stati Uniti, anche qui esiste da tempo la “affirmative action”, un sistema di regole per promuovere l’ascesa professionale e sociale dei gruppi più sfavoriti. Dal 2005 una nuova legge ha esteso il sistema delle quote su un nuovo terreno, bastione del liberismo: perfino le scuole private – gli istituti di élite dove i figli dei ricchi si preparano per gli esami di ammissione alle superuniversità – devono riservare il 22 per cento dei posti agli studenti alle categorie più povere, inclusi i Dalit.

E’ di oggi la notizia della sospensione, per intimazione della Corte Suprema, dello sciopero dei medici dei maggiori ospedali di New Delhi, contrari alla decisione governativa di aumentare al 27 per cento la quota riservata alle caste più basse nelle istituzioni educative di élite. La contraddizione indiana tra democrazia formale e sistema sociale castale è alimentata dal fatto che l’induismo è l’unica grande religione mondiale che afferma che gli uomini non nascono uguali, non possono avere gli stessi diritti. Per questo molti Dalit, scettici sull’efficacia della affirmative action, hanno deciso di applicare il precetto di Bhim Rao Ambedkar, leader storico degli intoccabili: “Sono nato indù, non morirò indù”. Con questo slogan nel 1956 convinse più di un milione di intoccabili a convertirsi al buddhismo, una fede che non teorizza la diseguaglianza irreparabile tra uomini. Da allora il fenomeno delle conversioni non si è mai fermato, ma negli ultimi anni ha cambiato direzione, con l’aumento delle conversioni all’Islam ed al messaggio di fratellanza da esso predicato. Per reazione, stiamo assistendo ad una radicalizzazione integralista dell’induismo, che si sente assediato dall’aggressivo proselitismo islamico e chiede a gran voce, attraverso il partito induista-nazionalista Bjp, il bando delle conversioni religiose “ottenute con mezzi fraudolenti”.

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