Economisti statalisti

Apprendiamo dell’esistenza di un bizzarro sito (o meglio, di una bizzarra home page, poiché il sito si riduce a quella) dove un gruppo di 70 “economisti” ha affisso un appello contro la riduzione del debito pubblico italiano, ed in favore della sua semplice stabilizzazione. Iniziativa che non meriterebbe considerazione alcuna, se non rappresentasse la cartina di tornasole di un modo perverso di argomentare l’economia. L’appello si apre con l’ormai stucchevole ruminazione circa l’attesa messianica che la vittoria (?) elettorale del governo Prodi avrebbe suscitato “presso la maggioranza degli italiani”, la grande opportunità di riscatto da un quinquennio di fame, carestie e pestilenze. Segue l’individuazione delle priorità per la rinascita del paese, gli abituali luoghi comuni che il nostro gruppone di economisti ritiene debbano essere realizzati attraverso robustissime dosi di statalismo e di intervento pubblico nell’economia: ricerca, formazione, politica industriale (c’è ancora qualcuno che ne parla), infrastrutture materiali ed immateriali e via enumerando.

Il timore dei Nostri è che

il Governo si stia orientando verso una politica generale delle finanze pubbliche che precluderebbe ogni possibilità di fornire risposta alle reali esigenze del Paese. Dal Documento di programmazione economica e finanziaria sembra infatti emergere una pesante manovra di finanza pubblica volta a realizzare un rapido abbattimento del rapporto tra debito pubblico e Pil. Il perseguimento di un simile obiettivo richiederebbe l’accumulo di avanzi primari annuali estremamente ampi. Ciò implicherebbe tagli significativi alla spesa pubblica, incrementi del prelievo fiscale non reimpiegabili nell’economia e, presumibilmente, ulteriori dismissioni e privatizzazioni.

A noi pareva di aver capito che obiettivo di Prodi, più volte reiterato in campagna elettorale, fosse proprio la ricostituzione di un robusto avanzo primario da destinare in via prevalente ma non esclusiva all’abbattimento del rapporto tra debito e pil. Eppure, gli economisti manifestanti appaiono atterriti di fronte alla possibilità di riduzioni di spesa pubblica e addirittura -udite- di “ulteriori dismissioni e privatizzazioni”. Ecco poi il muffito monito contro la “compressione della domanda aggregata”, che per questi signori è composta esclusivamente dalla spesa pubblica e dai consumi privati da essa dipendenti. In questa visione statica e statalista della composizione dell’economia non c’è spazio per politiche di riduzione delle tasse conseguenti a riduzione della spesa, e per l’impulso alla crescita che esse rappresentano. Poi, ecco prevalere la tipica astuzia italica:

L’unificazione monetaria europea e la presenza di un mercato finanziario integrato hanno fortemente ridimensionato i differenziali tra i tassi d’interesse dei paesi membri, e non sussiste alcun motivo tecnicamente plausibile per attendersi incrementi significativi e duraturi di tali differenziali. Qualsiasi riferimento ad eventuali reazioni avverse da parte dei mercati andrebbe pertanto seriamente argomentato sul piano tecnico-scientifico, anziché essere semplicisticamente evocato. L’eventuale esigenza di ulteriori riduzioni del rapporto tra deficit e Pil – da verificare nelle sedi del Parlamento nazionale, della Commissione e del Consiglio europeo – andrebbe comunque esaminata tenendo conto della mancata applicazione di sanzioni nei confronti di quei paesi membri che negli anni passati presentavano “disavanzi eccessivi”.

 In soldoni: se non hanno penalizzato Francia e Germania per lo sforamento del 3 per cento di rapporto tra deficit e pil, con il loro 60-65 per cento di rapporto debito-pil, perché mai dovrebbero prendersela con l’Italia che ha solo il 108 per cento di rapporto debito-pil? I nostri economisti statalisti dimenticano che sarebbe buona regola utilizzare anticiclicamente la congiuntura, riducendo deficit e debito durante le fasi espansive proprio per aumentare l’efficacia del deficit spending causato dagli stabilizzatori automatici durante le recessioni. Allo stesso modo, i firmatari dimenticano che uno stock di debito pubblico elevato tende ad autoalimentarsi quando il tasso d’interesse reale (fuori dal controllo dei keynesiani d’accatto di casa nostra) eccede il tasso di crescita reale del pil, e ciò causa un aumento della spesa per interessi sullo stock di debito, sottraendo risorse ad impieghi più produttivi, oltre che al leggendario stato sociale. Concetti troppo ostici per questi signori, tra le cui fila notiamo con sincero rammarico (ma senza sorpresa) il nome del professor Artoni. La radice della crisi fiscale italiana nasce da un’economia la cui produttività cresce troppo poco, a causa della specializzazione in settori produttivi maturi e tradizionali, oltre che del peso eccessivo sull’economia di un settore pubblico del tutto incapace di fungere da volano di crescita, dato che la spesa per pensioni e stipendi assorbe la quasi totalità delle risorse generabili. Nell’appello manca qualsiasi riferimento alla riqualificazione della spesa, tradendo il convincimento ideologico per il quale è lo stock di spesa pubblica in sé che guida lo sviluppo economico, non la sua composizione.
Un appello di questo tipo serve solo a fornire la misura del gravissimo ritardo culturale dell’accademia italiana, dalle cui fila sembrano destinati ad uscire solo advisor economici che non sarebbero serviti neppure ai modelli socialisti africani del periodo post-colonizzazione.
 

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