Non potete avere entrambe. A meno di ritenere gli italiani dei minus habens, considerazione che potrebbe peraltro avere un qualche fondamento. La tesi secondo la quale la proprietà italiana della grande distribuzione food sarebbe garanzia di mantenimento in vita della produzione italiana, soprattutto nel settore agroalimentare, è una mistificazione ed un falso. Che le Coop abbiano mire su Esselunga, ora che il vecchio (lo diciamo con deferenza e rispetto per la sua storia imprenditoriale) Bernardo Caprotti sembra intenzionato a godersi il meritato riposo, è lecito e legittimo. Basta pagare un euro in più del migliore offerente, di qualsiasi nazionalità esso sia. Assai meno lecito e legittimo sarebbe utilizzare indebite pressioni politico-amministrative, contando su rapporti sinergici con l’attuale governo, per acquisire una posizione dominante nella GDO, segnatamente nel food, che con la sopravvivenza dei produttori agricoli italiani (che restano, in un elevato numero di casi, troppo piccoli e con strutture di costo assai poco efficienti) c’entra come i cavoli a merenda, per restare in tema. Siamo tornati al periodo ruggente dei neo-fazisti del quartierino, che intonavano a squarciagola il “non passi lo straniero” per farsi amabilmente gli affari propri? Non è che di questo passo il “politicamente corretto” indurrà a definire liberalizzazione la costruzione (ed il potenziale, successivo abuso) di posizione dominante?
Governo e maggioranza si astengano dall’entrare nel gioco del libero mercato tra domanda ed offerta nella Grande Distribuzione.
I cittadini-consumatori si leggano, invece, le argomentazioni di Caprotti e dell’Esselunga. Sono molto istruttive per porre il consumatore al centro dell’agenda politica e del processo di formazione dell’opinione pubblica. Oltre che per iniziare e continuare a resistere, resistere, resistere.
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