Gli Stati Uniti hanno annunciato ieri la decisione di presentare due distinte contestazioni contro la Cina davanti alla WTO per mancata repressione delle violazioni del diritto d’autore, solo dieci giorni dopo aver imposto dazi contro le importazioni dalla Cina di cartoni. Le crescenti tensioni commerciali tra i due paesi, con gli Stati Uniti che accusano Pechino di non consentire l’apprezzamento dello yuan in misura tale da riflettere i fondamentali economici, sembrano quindi giunte ad un punto di svolta, dopo la discreta ma tenace azione diplomatica svolta dal Segretario al Tesoro statunitense, Paulson, per convincere i cinesi ad accelerare il movimento di rivalutazione dello yuan contro dollaro.
I cinesi non hanno potuto, o meglio voluto, andare in questa direzione, per non compromettere gran parte della propria industria manifatturiera, i cui utili sono basati su margini unitari risicatissimi e (di conseguenza) su grandi volumi di vendita. Da una caduta di profittabilità manifatturiera, in un momento di grandi trasformazioni del sistema sociale cinese, con la crescente inurbazione dalle campagne, la Cina avrebbe solo da perdere, e rischierebbe la destabilizzazione del proprio sistema politico. Alla base di queste considerazioni vi è l’apparente riluttanza a promuovere un più rapido apprezzamento del cambio.
Gli occhi degli analisti e della comunità finanziaria internazionale sono ora puntati sul cambio del dollaro, il sicuro perdente di una guerra commerciale, vista l’entità dei due deficit gemelli statunitensi (di bilancio e delle partite correnti), che rischia di precipitare un violento aggiustamento dello squilibrio esterno.
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