Oblio

È una calda sera d’estate a Tel Aviv. Seduto al tavolo degli oratori in veste d’ospite d’onore a un incontro letterario, lo scrittore ascolta e non ascolta i lunghi convenevoli, la barocca presentazione del critico di turno, la voce incerta della lettrice. Osserva il pubblico in sala e torna con la mente alle persone che ha visto poco prima in un bar – una cameriera dimessa ma con una provocante trasparenza di biancheria intima, due tizi dall’aria losca, una vecchia signora dalle gambe gonfie, un tipo malmostoso che non sembra affatto d’accordo con quel che sta dicendo l’oratore, un timido e occhialuto adolescente. Queste immagini captate, anzi rubate alla realtà diventano quasi simultaneamente delle storie. Finita la serata letteraria, lo scrittore prende a vagare per le strade quasi deserte della città e in questa specie di solitudine dà vita ai suoi nuovi personaggi. Anzi, entra nelle loro vite, le invade e le trasforma.

Accompagnato dai versi di un poeta ch’egli immagina al suo fianco, lo scrittore costruisce un affresco di vita e di morte pieno di sorprese.

Esiste il saggio senza cervello
Esiste lo stolto con il cuore grande
C’è la gioia che finisce in pianto
Ma nessuno comprende il segreto.

A volte compariva anche una specie di breve epigramma su defunti ormai dimenticati da tutti, quando ormai solo di rado discendenti o nipoti se ne rammentavano, e anche questa memoria non è altro che un’ombra fugace, poiché alla morte dell’ultimo che ricorda, il morto muore un’altra volta, definitiva, ed è come se non fosse mai esistito.

Una volta, viene ora in mente allo scrittore, Beit Halachmi pubblicò una puntata della rubrica sotto il titolo Ricerca del pane lievitato, in cui scriveva, sempre in rima, della tendenza delle cose a consumarsi e sbiadire pian piano: oggetti e amore, abiti e ideali, case e sentimenti, tutto si frantuma, tutto diventa consunto, tutto si perde in polvere, prima o poi.

Amos Oz, La vita fa rima con la morte
Feltrinelli, I Narratori, 2008
Traduzione italiana di Elena Loewenthal

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