Come ampiamente atteso, il governo Berlusconi ha adottato, durante il primo consiglio dei ministri operativo, tenuto simbolicamente a Napoli, le due misure di immediata applicazione che erano parte del programma elettorale del PdL: eliminazione dell’ICI sulla prima casa e sulle sue pertinenze, ed introduzione a titolo sperimentale dal primo luglio alla fine dell’anno della detassazione delle “remunerazioni di produttività”.
Le obiezioni alla manovra sull’ICI sono note: pur escludendo gli immobili di pregio (ville, castelli ed immobili di lusso), l’intervento finisce con l’essere regressivo, proprio perché applicato integralmente alle prime case. Altri rilievi critici sulla manovra affermano che la soppressione dell’ICI rappresenterebbe un passo indietro sulla strada del federalismo fiscale. Come ha scritto Francesco Giavazzi:
Di tutte le imposte l’Ici è la più federalista, e anche la più efficiente. Il gettito non va a Roma, rimane ai Comuni. E se con quel gettito il sindaco non aggiusta le strade, i cittadini, incontrandolo in piazza, possono chiedergliene conto e avvisarlo che se continua così non verrà certo rieletto. (…) i Comuni verranno compensati per il gettito perduto. Doppio errore: innanzitutto perché se così fosse le tasse evidentemente non scenderebbero. E poi perché quel sindaco che non aggiusta le strade potrebbe dire che non è colpa sua, ma del governo che gli lesina risorse.
Obiezioni nel complesso fondate. Probabilmente il governo Berlusconi ha voluto dare un segnale simbolico, eliminando un tributo non particolarmente amato, anche perché rappresenta un adempimento a scadenza fissa, come la dichiarazione dei redditi. Resta il fatto che da domani i comuni italiani saranno ancora un po’ più fiscalmente irresponsabili, e questa non è propriamente una buona notizia. Auspicabile che il federalismo fiscale venga effettivamente recuperato quando si metterà mano alla riforma istituzionale alla quale lavorerà Umberto Bossi. Quanto alle modalità di copertura, il rischio che si rivelino illusorie non è basso, visto che vengono identificate nella “riduzione di voci di incremento di spesa discrezionale della spesa pubblica”, segnatamente gli incrementi di spesa contenuti nel decreto milleproroghe e nella Finanziaria per il 2008, che come noto è nata già con robusti impegni di spesa sul groppone. Auguri, soprattutto quando ci si trova in un paese a crescita zero, e non si può contare su improbabili tesoretti. Al limite, quando il rapporto deficit-pil sfonderà i parametri di Maastricht potremo sempre dire che l’Europa ci deve aiutare, e non “zignare”.
Sulla detassazione delle remunerazioni di produttività abbiamo scritto e letto ad abundantiam. Per un recap della materia, rimandiamo a questo esaustivo articolo di Alberto Lusiani su nFA, ma anche alla replica, con osservazioni (tecnicamente ineccepibili, piaccia o meno), di Vincenzo Visco. L’ambito di applicazione della detassazione delle remunerazioni di produttività è stato fortemente circoscritto dal governo, e verrà applicato sulla soglia secca di redditi 2007 pari a 30.000 euro. Per evitare più che probabili abusi, inoltre, la detassazione verrà applicata solo sulla retribuzione straordinaria non eccedente i 3000 euro. Come osservato da qualcuno, un provvedimento non propriamente in linea con la voglia di delegificazione e deburocratizzazione che ha condotto all’istituzione di un ministero ad hoc.
Due giorni fa, sul Sole24Ore è apparso un editoriale in cui Fiorella Kostoris (che dell’intervento è sostenitrice) auspicava una detassazione da applicare sulla media dell’orario di lavoro del triennio precedente. In tal modo, il provvedimento avrebbe beneficiato non solo e non tanto chi già lavora ad orario contrattuale pieno, ma anche chi (tipicamente le donne) tende ad avere un monte-ore lavorate mediamente inferiore a quello dei colleghi. Le argomentazioni della Kostoris sono ispirate alla tesi di Alberto Alesina e Andrea Ichino:
(…) l’offerta di ore lavorate da parte delle occupate è assai più elastica rispetto al salario al netto delle imposte di quella dei colleghi uomini: dunque, se non emergessero esplicite preferenze o discriminazioni di genere nella domanda delle imprese, le lavoratrici, pur con un orario attuale inferiore al maschile, sarebbero le prime a reagire positivamente, divenendo le principali beneficiarie di tale misura, perché l’incentivo di fatto risulterebbe per loro più forte, e l’autonomia economico-sociale della donna sarebbe di conseguenza rafforzata.
Eccesso di ambizione, nella proposta della Kostoris. Che tuttavia non ritiene di doversi soffermare sull’utilità del ricorso allo straordinario in un momento di bassa congiuntura. E’ ovvio che non tutti i settori e non tutte le imprese si trovano sincronizzati alla congiuntura, ma stimolare il ricorso allo straordinario (non parliamo, per il momento, dei premi di produttività) in una fase di forte debolezza congiunturale ricorda molto l’atto di utilizzare delle stringhe per spingere: assai poco efficace.
In sintesi questo intervento, per come è strutturato, non pare una misura di stimolo alla produttività del lavoro (che a livello macro è fortemente prociclica e coincidente col pil), quanto una moderata iniezione di potere d’acquisto a vantaggio dei lavoratori dipendenti a minore reddito. Che in astratto non è disprezzabile, anche se non disponiamo di numeri per valutare efficacia ed efficienza espansiva delle risorse pubbliche destinate a tale manovra. Pensiamo (speriamo) che il governo disponga di un modello econometrico per valutare l’impatto di breve e lungo periodo dell’intervento sulle principali variabili macro, quali consumi ed investimenti. Se qualcuno volesse segnalarci qualcosa in merito, è vivamente invitato a farlo.
I veri interventi strutturali di promozione della produttività sono attesi dalla riforma della contrattazione collettiva, che non è esattamente per domattina, visto che il protocollo d’intesa tra Cgil, Cisl e Uil prevede l’aggancio della parte economica del contratto nazionale ad una non meglio identificata “inflazione realisticamente percepita” (sic), che rischia di esaurire tutto lo spazio monetario disponibile per la contrattazione di secondo livello (che deve essere aziendale, senza aggiungere addirittura il terzo livello della contrattazione territoriale, che farebbe diventare i negoziati di rinnovo contrattuale qualcosa di molto simile al Vietnam).
Per il momento, osserviamo che i pubblici dipendenti sono rimasti esclusi dalla sperimentazione. Tra essi, anche le forze dell’ordine, che svolgono straordinari spesso in misura comparabile all’orario contrattuale, e sono retribuiti (per il momento ancora a tassazione piena) per una minima frazione dei medesimi; ed il personale infermieristico delle strutture sanitarie pubbliche, per il quale lo straordinario è ordinario. Forse non tutti sanno che in Italia abbiamo carenza strutturale di infermieri professionali, e che in regioni come la Lombardia si verifica un costante deflusso di tali lavoratori verso la vicina Svizzera, indovinate per quale motivo. Non a caso la Regione Lombardia ha di recente deciso di aumentare le retribuzioni dei propri infermieri. Oltre ad un potenziale problema di costituzionalità nella discriminazione a danno dei pubblici dipendenti (secondo Pietro Ichino), appare evidente che la migliore misura per perseguire l’aumento del reddito netto dei lavoratori è rappresentato dall’aumento delle detrazioni sui redditi da lavoro, evitando di penalizzare lavoratori e settori che fanno strutturalmente meno straordinario.
Ultima segnalazione per l’intesa raggiunta tra Tremonti e l’Associazione Bancaria Italiana sulla rinegoziazione dei mutui a tasso variabile stipulati prima del 2007. Come spiega il Sole24Ore,
La rinegoziazione comporterà la riduzione dell’importo della rata a cominciare da quelle che scadranno dopo 90 giorni dalla data di rinegoziazione. La nuova rata si calcola applicando all’importo originario del mutuo il tasso di interesse contrattuale medio del 2006. La differenza tra l’importo della rata dovuta secondo il piano di ammortamento originariamente previsto e quello risultante dall’atto di rinegoziazione è addebitata su di un conto di finanziamento accessorio regolato al tasso Irs a dieci anni, riferito alla data di rinegoziazione, maggiorato di uno spread dello 0,50 (dunque tasso fisso). Il mutuo diventa a rata fissa, di importo medio analogo a quello pagato nel 2006. Ma attenzione: l’Abi spiega che «la durata resta inizialmente invariata e il suo eventuale allungamento dipenderà dall’andamento dei tassi di interesse».
Se dalla rinegoziazione alla scadenza i tassi di interesse sono mediamente saliti o non sufficientemente diminuiti, la durata del mutuo verrà automaticamente estesa, sempre a rata fissa, per il periodo sufficiente a rimborsare l’eventuale finanziamento accessorio. Se, invece, durante la vita del mutuo rinegoziato i tassi di interesse scendono in misura superiore al beneficio già acquisito con il passaggio alla rata fissa, il beneficio legato al nuovo tasso verrà riconosciuto attraverso il ritorno a una inferiore rata variabile come prevista dal mutuo originario.
Che tradotto vuol dire che Tremonti ha inventato il mutuo a rata costante e durata variabile, un prodotto che molte banche hanno già tra quelli offerti alla clientela. Questa scoperta dell’acqua calda non impedisce tuttavia al ministro dell’Economia di fare la ruota e parlare di fiscal suasion (il primato della politica sull’economia secondo la sua personalissima interpretazione) mentre annuncia, citando un’espressione di Einaudi, che a giugno verranno precisati gli interventi di fiscalità a carico di chi ha beneficiato di “guadagni di congiuntura”. Chissà, forse il ministro del Tesoro si è accorto che le banche hanno una formidabile capacità di traslare a valle (cioè sulla clientela) gli eventuali inasprimenti fiscali ad esse applicati, e che con la restrizione degli standard creditizi in atto forse non conviene fare la faccia feroce con chi regge i cordoni della borsa.
E’ un principio cardine di scienza delle finanze, professor Tremonti: non conta il soggetto passivo d’imposta, ma chi è effettivamente inciso dalla medesima. Chissà, magari meno dirigismo e più mercato sarebbero utili ai consumatori, lei che dice?