Riforme ingabbiate

Poiché ogni giorno ha la sua pena, siamo costretti ad occuparci dell’ultima trovata very pop della Lega, quella delle gabbie salariali. Un meccanismo di cui si parla da molto tempo: negli anni Settanta e Ottanta venivano proposte per riassorbire la forte disoccupazione delle regioni meridionali. Poiché queste ultime, si diceva, sono caratterizzate da trend di crescita della produttività nettamente inferiori rispetto al Centro-Nord, avere una centralizzazione retributiva (ed una elevata pressione fiscale) finisce col perpetuare il dualismo territoriale del paese, incentivando il sommerso fiscale e contributivo delle regioni a crescita più lenta.

Oggi, la motivazione alla base della richiesta di reintroduzione del meccanismo sarebbe soprattutto il differenziale di potere d’acquisto tra Nord e Sud del paese. Almeno così pare pensarla lo stato maggiore della Lega, che nei giorni scorsi, per bocca del ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli, si è espressa per

“[…] garantire il valore reale di stipendi e salari tenendo conto anche di come varia il costo della vita sul territorio”

Uhm, no. Gli stipendi devono essere funzione della crescita di lungo periodo della produttività, non dell’inflazione. Se la Lega ragiona in questi termini, può tranquillamente prendere contatto con Ferrero e Ferrando per organizzare una grande manifestazione a favore del salario “variabile indipendente”, e successivamente dare vita ad un bel partito marxista-leghista.

Ma esattamente, quale sarebbe l’obiettivo dei padani? Alzare il potere d’acquisto del Nord, si direbbe. Bene, ma che c’entrano le gabbie salariali? Abbassiamo la retribuzione tabellare al Sud in modo che i lavoratori settentrionali, a salario invariato, possano provare la loro meritata schadenfreude? Oppure per “gabbie salariali” Calderoli & compagni intendono l’aumento della retribuzione tabellare al Nord? O il netto in busta? Oppure vogliono la reintroduzione della scala mobile? Noi non lo abbiamo capito, ma andiamo per e con ordine.

Nel primo caso (alzare la retribuzione dei lavoratori settentrionali), a parità di ogni altra variabile, finirebbe col provocare una ecatombe di posti di lavoro e/o una epocale “immersione” contributiva delle regioni del nord: non esattamente uno scenario auspicabile. Se invece parliamo di aumento del netto in busta, che poi è l’unica cosa che conta per il potere d’acquisto, il risultato può essere conseguito con una riduzione del cuneo fiscale, e/o delle aliquote Irpef, oltre che con lo spostamento di quote crescenti di retribuzione in capo alla contrattazione decentrata. Se invece si intende il concetto di gabbie salariali come impervio sinonimo di reintroduzione della scala mobile, differenziata su base regionale, pare di capire che Calderoli inferisca che l’inflazione nelle regioni settentrionali è maggiore che al sud. Ma il potere d’acquisto è uno stock, l’inflazione è un flusso, una variazione. E se Calderoli si prendesse la briga di guardare le statistiche, oltre che un libro di testo di economia, scoprirebbe che l’inflazione è tendenzialmente maggiore dove vi è minore concorrenza e dove la produttività cresce meno. Cioè nelle regioni meridionali.

In attesa di risolvere questo assai poco gaudioso mistero, che presumibilmente mistero non è, perché rientra in quella bizzarra metodica di costruzione del consenso fatta di molti annunci ed assai scarsi fatti, può essere utile tornare con la memoria al maggio 2005, quando il governo di centrodestra dell’epoca chiuse un assai oneroso contratto dei dipendenti della pubblica amministrazione, proclamando che il corrispettivo di quel “sacrificio” sarebbe stata una vera e propria “rivoluzione” nella produttività dei travet (dove l’abbiamo già sentita, questa?). Calderoli era in prima fila tra i “rivoluzionari” e già all’epoca, forse per dare il contentino alla base elettorale leghista, sconcertata per l’esito di quel contratto, invocava le gabbie salariali:

Noi diciamo solo che gli stipendi devono essere in funzione del costo della vita: del resto sono parametri oggettivi, dati certificati dall’Istat. E non vedo perché almeno una parte del reddito, vedremo quanta, non debba essere collegata alle condizioni di vita’.

Il tempo vola, quando ci si diverte.

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