Il teatrino delle pensioni

La Cgil fa sapere di essere contraria all’applicazione automatica dei nuovi coefficienti di calcolo per la pensione, prevista a partire dal primo gennaio 2010. L’applicazione, prevista dalla legge 247 del 2007 – spiega il segretario confederale Morena Piccinini – avrebbe dovuto essere preceduta dal lavoro di una Commissione sullo studio di una modifica di questi coefficienti di trasformazione del montante contributivo, Commissione però che non è mai stata costituita. Chissà perché.

La revisione dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo in rendita pensionistica, legati all’età alla quale si va in pensione (più bassi se si esce dal lavoro prima e più alti se si esce dopo), è stata prevista a fronte dell’allungamento della vita media. Ipotizzando che si riceva l’assegno per più tempo, infatti, a parità di età di uscita dal lavoro, l’importo, legato ai contributi versati nella propria vita lavorativa, sarà abbassato. La sindacalista Cgil ci avverte però che l’applicazione dei nuovi coefficienti produrrà una riduzione consistente delle pensioni erogate a partire dal 2010 e soprattutto segnerà differenze di circa il 3% dell’assegno mensile tra chi uscirà dal lavoro a dicembre 2009 e chi andrà in pensione a gennaio 2010.

“Si tratta – dice – di circa 1.000-1.200 euro l’anno per chi ha una pensione di 1.800 euro al mese. Alla fine, una misura che avrebbe dovuto spingere le persone a restare di più al lavoro le convincerà ad uscire entro quest’anno”. Anche questo degli iniqui “gradoni” è un antico cavallo di battaglia dei veti sindacali su ogni ipotesi di riforma del sistema pensionistico. Il precedente più famoso resta quello dell’ammorbidimento della riforma Maroni e del suo “scalone”, che avrebbe interessato poche decine di migliaia di pensionati, la metà dei quali del settore pubblico, e che ha indotto il governo Prodi a sostituirlo con una serie di scalini che costeranno 10 miliardi di euro in dieci anni.

La differenza tra gli importi di pensione, secondo Piccinini, sarà ancora più consistente tra chi va a riposo con il sistema retributivo (coloro che avevano almeno 18 anni di contributi aitempi della riferma Dini, nel 1995). “In questo caso – spiega -la differenza tra gli assegni puo’ arrivare al 7% tra chi ha lapensione calcolata con il sistema retributivo e chi va inpensione con il sistema contributivo dall’anno prossimo”. Probabile, ma ai tempi della riforma Dini la Cgil è stato, incidentalmente, il sindacato in prima linea nella difesa dei lavoratori a maggiore anzianità contributiva, contribuendo ad accrescere la balcanizzazione del sistema. L’Italia è una repubblica democratica fondata sulla deroga.

Questa della creazione di una fantomatica commissione di studio per la verifica e modifica dei coefficienti, voluta dall’ultimo governo Prodi, non è che uno degli innumerevoli esempi di tattiche dilatorie volte a rinviare la gestione di un problema, di cui i governi italiani danno prova da lustri. Si basa sullo stesso principio che aveva prodotto la tempistica di entrata a regime dello scalone Maroni, e la “finestrella Sacconi“, destinata ad entrare in vigore nel 2015. E probabilmente è proprio quest’ultimo provvedimento quello a cui l’attuale governo ha pensato per disapplicare la legge istitutiva della commissione per la revisione dei coefficienti. Peccato che si tratti di cose diverse, dall’impatto ancora più diverso sul profilo temporale della spesa pensionistica.

Perché in questo paese funziona così: si crea una commissione “pro futuro“, diciamo ad almeno una legislatura di distanza; all’approssimarsi della fatidica data tutti prendono a fischiettare e si volgono dall’altra parte. I termini scadono e la manutenzione del sistema non avviene, a quattordici anni dalla entrata in vigore della riforma Dini, entro la quale i coefficienti hanno il fondamentale compito di tenere il sistema pensionistico in equilibrio finanziario per via demografica. Il tempo passa, non si tocca nulla. E al limite si può sempre buttarla in caciara invocando la altrettando mitologica separazione tra assistenza e previdenza nel bilancio Inps (vecchio arnese retorico dei sindacalisti), oppure scambiare il bilancio di cassa dell’istituto di previdenza sociale per quello di competenza: il primo è ricco grazie ad occasionali ritocchi delle aliquote (che servono solo ad aumentare il cuneo tra lordo e netto in busta), il secondo fa spavento, ma chi vuol esser lieto sia che del doman non vi è certezza.

Ora la Cgil chiede che l’applicazione non sia retroattiva e quindi fatta sull’intero montante contributivo. Sarebbe invece possibile discutere su un’applicazione pro rata, solo sui contributi accumulati a partire dal 2010. Anche in questo caso, se ai tempi della riforma Dini si fosse deciso di utilizzare il pro-rata anche per l’introduzione del metodo contributivo, anziché tenere nel sistema retributivo integrale i lavoratori con più di 18 anni di contributi, oggi avremmo molti problemi in meno. Ma tant’è, siamo un paese di smemorati che recitano a soggetto.

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