Dopo il dato preliminare sull’indice dei prezzi al consumo italiani di dicembre, pubblicato ieri da Istat, oggi sui giornali (soprattutto quelli vicini all’esecutivo) prevalgono letture positive e “consolatorie”. Il dato sarebbe favorevole in quanto allontanerebbe lo spettro della deflazione, consentendoci quindi (per inferenza piuttosto spericolata) di cogliere tracce dell’esistenza di una qualche pressione della domanda. Sappiamo in realtà che il petrolio entra, direttamente ed indirettamente, nel dato finale di questo mese in modo piuttosto pesante. Ad esempio attraverso il costo dei trasporti, inclusivo dei biglietti aerei, che notoriamente sono molto reattivi al prezzo dei carburanti, attraverso la relativa voce di sovrapprezzo. Questa è inflazione da costi, non certo da domanda, ma sperare è gratis, almeno per ora.
Provate a riflettere su questo punto: se l’inflazione aumenta per costi e non per domanda, in che modo possiamo inferire la vivacità della domanda? La realtà è che, a domanda invariata (e non ci pare che i consumi italiani siano così vibranti), l’aumento dei prezzi si traduce solo in una perdita di potere d’acquisto.
C’è poi da temere la reazione della Banca centrale europea a questo dato. Quest’oggi tutti gli osservatori pongono l’accento sul fatto che il tendenziale dei prezzi al consumo ha superato la soglia del 2 per cento di tendenziale, la “comfort zone” dell’istituto di emissione di Francoforte. Lecito, quindi, attendersi prossimi rialzi dei tassi? Speriamo di no, diciamo noi. E per un motivo semplice: ciò che conta non è l’inflazione complessiva (o headline, come dicono gli anglosassoni), ma quella core, cioè al netto delle componenti volatili di alimentari ed energia, che consente di valutare l’esistenza dei cosiddetti second round effects, cioè le pressioni inflazionistiche non transitorie, quelle che peraltro rischiano di “disancorare” le aspettative di stabilità dei prezzi. L’inflazione core, in Eurolandia, è oggi all’1,1 per cento, quindi non pone (per ora) alcun problema. Solo in caso dovesse emergere una tendenza al suo progressivo aumento, la Bce potrebbe diventare più vocale contro l’aumento dei prezzi.
In soldoni, il rischio è quello di ritrovarci (noi italiani, nello specifico), con condizioni di stagflazione. Cioè prezzi in aumento (per shock esogeno da materie prime) e andamento stagnante dell’attività economica. Senza contare che i mercati potrebbero innalzare i rendimenti nominali dei titoli di stato, aumentando l’onere del servizio del debito. Insomma, non riusciamo a comprendere cosa ci sia di così positivo nel dato di ieri, ma l’ottimismo è notoriamente il profumo della vita.
Vi lasciamo con un dato su cui riflettere: l’indice dei direttori acquisti delle imprese di servizi (PMI, Purchasing Manager Index), elaborato mensilmente dalla società specializzata Markit, mostra in dicembre per Eurolandia un livello di 54,2. Ricordando che ogni numero superiore a 50 indica espansione, il valore per la Germania è di ben 59,2 (in ascesa rispetto al 58,3 di novembre), per la Francia è di 54,9 (da 54,1), mentre per il paese felice nel quale viviamo è di 50,2, contro un livello in novembre di 54,4. Questo vuol dire che l’Italia, dei grandi paesi europei, è l’unico in controtendenza, visto che da noi il settore dei servizi ha smesso di espandersi.
Ma state sereni, il boom silenzioso prosegue.