La giornata di ieri ha visto una raffica di declassamenti di rating di banche, di qua e di là dell’Atlantico. Standard & Poor’s ha dato seguito all’azione sul debito sovrano italiano declassando sette banche italiane, che vengono peraltro mantenute in outlook negativo assieme ad altre otto. Nel frattempo, Moody’s ha tagliato il rating su Bank of America a Baa1 da A2. Questo rating è equivalente al BBB delle altre due agenzie, quindi possiamo dire che BofA rischia di diventare una global junk bank, in caso perdesse il rating di investment grade, con tutto quello che ne conseguirebbe.
La decisione di Moody’s consegue dal fatto che la valutazione delle grandi banche americane sta venendo progressivamente sganciata dal supporto governativo. Le agenzie di rating, da oltre un anno, hanno già spiegato che, senza aiuti pubblici, le banche too big to fail dovrebbero situarsi in un intorno della tripla B, e queste azioni di rating sono l’ovvia conseguenza. In questo quadro, è piuttosto difficile anche solo immaginare che l'”Operazione Twist” lanciata dalla Fed possa sortire qualche risultato pratico. La mina dei mortgage è innescata sotto le fondamenta delle banche, che quindi dovranno preoccuparsi soprattutto di ridurre il leverage e non di spingere il credito ad ogni costo, disinteressandosi della qualità dei debitori.
Le banche italiane soffrono per l’intossicazione da titoli di stato che si trovano in pancia (oltre che per il deterioramento del portafoglio crediti conseguente al rallentamento dell’economia), e a nulla servono le deroghe dei regolatori per evitare la valorizzazione a mercato di quelle posizioni. Solo questa considerazione dovrebbe far capire quanto prive di senso siano le proposte di “vincolo di portafoglio” (cioè obbligare le banche italiane a detenere una data percentuale di titoli di stato) avanzate da alcuni accademici italiani.
Nel frattempo, le banche francesi cercano di capire cosa fare da grandi: BNP Paribas ha iniziato un tour in Medio Oriente per recuperare qualche sleeping partner che ci metta i soldi, non disturbi la gestione e si accontenti di dividendi che non arriveranno. Data la performance storica degli investitori sovrani del Golfo potrebbe pure andare a finire a quel modo, ma per non sapere né leggere né scrivere pare (secondo il Financial Times) che le banche francesi stiano per chiedere una nuova edizione degli stress test, funzionale a qualche iniezione di denaro pubblico. Memo per la nostra Cassa Depositi e Prestiti: state pronti a mettere mano al libretto degli assegni. Ve la immaginate la festa, per i nostri satrapi? Una nazionalizzazione strisciante del sistema bancario domestico, in soccorso di quelle stesse fondazioni ridotte a rottami dalla politica stessa. L’Italia è l’unico paese al mondo dove il tempo non è galantuomo ma farabutto, pare.
Il problema è quello della ricapitalizzazione delle banche, inutile girarci intorno come invece fa qualcuno con proposte peraltro avvolte in un denso fumo di indeterminatezza, oltre che caratterizzate da originali suggerimenti di sussidi diretti dai paesi creditori ai debitori. Oppure, a vostra scelta, si chiede alla Bce di garantire le passività di tutti gli istituti, per stroncare pressioni speculative, ma poi si eviti di sdegnarsi per i salvataggi. Terze vie non ci pare di vederne, chiacchiere da bar invece ne sentiamo e leggiamo tantissime, purtroppo anche da chi dovrebbe padroneggiare un po’ meglio la materia.
Intanto, se volete avere qualcosa di cui preoccuparvi, considerate che le banche sono le tubazioni attraverso le quali la politica monetaria si trasmette all’economia reale. Se queste tubazioni sono ostruite, sono guai seri. Purtroppo, l’ostruzione appare sempre più grave.