L’uovo di Feldstein

In un commento sul Financial Times, Martin Feldstein suggerisce che un deprezzamento dell’euro avrebbe effetti benefici sulle tensioni interne all’Eurozona. Tesi non particolarmente originale, autoevidente ma anche ad alto rischio di fallacia. Nei dettagli, come sempre.

L’apertura del pezzo di Feldstein è lineare e confortante: gli squilibri delle partite correnti di Italia, Spagna e Francia possono essere ridotti senza deflazione interna ma anche senza costringere la Germania a stimolare la propria crescita e/o accettare una maggiore inflazione. E’ “sufficiente” aumentare l’export dei paesi in deficit, e il gioco è fatto. Fosse così semplice.

Feldstein premette correttamente che in Eurozona si sono sviluppate profonde differenze di produttività tra i paesi, e che le dinamiche retributive non hanno tenuto conto di tali divergenze, creando quindi un profondo squilibrio commerciale che non viene sanato perché manca la leva del cambio. In questi casi, evidenzia Feldstein (ed i libri di testo, per i più distratti tra voi), la soluzione passa per una “svalutazione interna”, cioè un taglio delle retribuzioni dei paesi in deficit commerciale (fino al 30 per cento, secondo l’economista statunitense), che tuttavia finirebbe con l’avere effetti depressivi, oltre (aggiungiamo noi) ad aumentare l’onere reale del debito, pubblico e privato. Poiché, come detto, la Germania non intende assumere il ruolo di locomotiva dell’Eurozona, serve un deprezzamento dell’Euro per ridare fiato all’export dei paesi in deficit commerciale.

Considerando che, secondo Feldstein, dal 2010 l’euro si è già deprezzato di circa il 12 per cento, ponderato per i flussi commerciali, occorrerebbe un ulteriore deprezzamento, stimato nasometricamente da Feldstein nel 20 per cento, sempre trade-weighted. Al tempo, però: l’Eurozona ha enormi problemi strutturali, che si riflettono nei sopracitati differenziali di competitività e squilibri di partite correnti intracomunitarie, ma l’aggregato dell’area è in equilibrio, tra import ed export. Se l’Eurozona nel suo insieme non ha squilibri di partite correnti, pur avendone di pesanti tra i suoi membri, per quale motivo l’euro dovrebbe deprezzarsi? I nostri partner commerciali, Stati Uniti in testa, potrebbero gridare alla manovra di beggar-thy-neighbour, e partire con ritorsioni commerciali e/o ulteriore deprezzamento del dollaro. Parlando di rischi protezionistici. E torniamo quindi alla casella di partenza.

Le cose non sono quindi semplici come pare metterle Feldstein. Il quale, forse accorgendosi che il suggerimento è piuttosto sbilenco e comunque un semplice palliativo con elevati costi potenziali, precisa i termini della questione:

«Un deprezzamento dell’euro non può essere una soluzione permanente a differenze nel trend di produttività entro l’Eurozona. Ma darebbe a quei paesi [quelli in deficit, ndPh.] tempo per migliorare la crescita della produttività prima che la forza fondamentale dell’euro ritorni. Se quei miglioramenti relativi di produttività non dovessero manifestarsi, potrebbe non esservi alternativa alla fine dell’Eurozona come la conosciamo oggi»

Ma cosa ci garantisce che un deprezzamento dell’euro serva a rilanciare la produttività, e non a frenarne l’incremento? Ci siamo dimenticati quello che accadeva all’Italia della lira?

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