Prosegue il recupero degli asset rischiosi, iniziato come reazione a condizioni di pessimismo estremo e proseguito su base fondamentale, con la stabilizzazione dei livelli di attività, e monetaria, con i due bazooka della Bce (a favore delle banche e, indirettamente, dei sovrani), e della Fed.
Il vertice europeo del 30 gennaio ha portato l’accordo di 25 dei 27 paesi dell’Unione sul nuovo “Patto di Stabilità, Coordinamento e Governance”, come si chiama ufficialmente quello che abbiamo imparato a conoscere come Fiscal Compact, e che è la riedizione del Patto di Stabilità e Crescita che fu disapplicato dai membri dell’Eurozona nel 2003 (durante una fase di crescita molto debole soprattutto per Francia e Germania). Non c’è alcuna garanzia che questa versione del Patto possa effettivamente raggiungere l’obiettivo, soprattutto in termini di vera ristrutturazione competitiva delle economie dei paesi dell’area e non solo di perseguimento del pareggio di bilancio (che da solo non risolve altri squilibri, come quelli di competitività), ma vi è la speranza che l’approvazione del Fiscal Compact possa servire a indurre la Germania ad aumentare la dimensione del fondo salva-stati ESM ed accettare altri meccanismi agevolativi dell’accesso al funding sovrano.
Sui mercati rischiosi, l’azionario globale si trova a circa il 10 per cento di distanza dal picco dello scorso anno, mentre l’indice statunitense S&P è a ridosso di quel picco, toccato lo scorso aprile, quando tuttavia gli utili per azione dell’indice erano di circa il 10 per cento inferiori a quelli odierni. Le minacce a questo contesto di ritrovata propensione al rischio sono quelli conosciuti: i colloqui di ristrutturazione del debito sovrano greco stanno divenendo sempre più complicati e sempre meno “volontari”, lasciando in essere il grave rischio di un default caotico. Negli Stati Uniti, si avvicina la nuova scadenza dell’estensione della riduzione dei contributi sociali (payroll tax) e dei sussidi straordinari di disoccupazione, che a fine 2011 erano stati prorogati per soli due mesi.
Il quadro di mercato è ormai caratterizzato dall’alternanza di fasi avversione e propensione al rischio (risk-on e risk-off) che finiscono col determinare movimenti in blocco (cioè con correlazione molto elevata) delle asset class. In questo momento, infatti, la correlazione tra tipologie di investimenti è su livelli addirittura più elevati che durante la crisi Lehman, e ciò mantiene basso il tradizionale valore della diversificazione.
Sul mercato del reddito fisso, lieve ripiegamento dei prezzi dei titoli di stato, che tuttavia si mantengono piuttosto resistenti al rally dell’azionario ed ai dati macro in via di miglioramento. E’ peraltro difficile ipotizzare una vera e propria fase ribassista sull’obbligazionario governativo globale core (Stati Uniti, Germania, Regno Unito), in presenza di una politica monetaria così eufemisticamente accomodante. A questo proposito, l’attesa è per un nuovo round di easing quantitativo della Bank of England, la prossima settimana (intorno ai 50 miliardi di sterline di acquisti di Gilt, rispetto ai 75 appena completati). In Eurozona, gli spread periferici potrebbero continuare a stringere nel breve termine, sia pure a passo meno vistoso delle ultime settimane, con il rischio-Grecia sempre sullo sfondo. La crisi dell’Eurozona ha riacceso i riflettori sul rischio sovrano giapponese, anche se i rendimenti dei titoli di stato del paese restano inferiori all’1 per cento. Il punto è che il saldo delle partite correnti giapponesi è atteso diventare negativo entro pochi anni: ciò richiederà agli stranieri di contribuire a finanziare il deficit fiscale giapponese, ed i rendimenti potrebbero quindi risalire.
Sul mercato azionario, si conferma il ritorno degli investitori sugli emergenti, con robusti flussi in ingresso registrati a gennaio sui fondi comuni specializzati. Restano gli abituali rischi verso gli investimenti ad alto beta: situazione greca e più generale dell’Eurozona. Su questo scacchiere, anche a gennaio si è confermata la sovraperformance dell’azionario tedesco, che peraltro si è manifestata anche durante periodi di avversione al rischio. Il miglioramento degli indici di attività a gennaio conferma la preferenza per i settori ciclici rispetto a quelli difensivi. Il mese appena concluso ha inoltre visto forti recuperi delle obbligazioni convertibili, strumenti ibridi che beneficiano dei rally sia del mercato azionario che di quello dei crediti.
Sul mercato dei crediti, nuovo vistoso movimento di riduzione degli spread. Ad esempio, nel mese di gennaio, l’obbligazionario high yield europeo ha recuperato circa il 6 per cento in valuta locale, quello statunitense circa il 3 per cento. I crediti europei fanno meglio di quelli statunitensi, sulla scorta dell’impatto sorprendentemente positivo del finanziamento triennale della Bce (che sta contribuendo alla forte riduzione del rischio-banche) e dell’avanzamento nella costruzione del nuovo patto di stabilità dell’Eurozona.
Sul mercato dei cambi si accentua il declino del dollaro, in termini ponderati per gli scambi commerciali, contro pressoché tutte le valute, soprattutto quelle emergenti. Le ragioni sono note: straordinaria fornitura di liquidità da parte della Bce, communication policy della Fed e ripresa dell’attività globale. In questo contesto potrebbero esservi le basi per un nuovo carry trade che abbia il dollaro come veicolo di finanziamento, comparabile a quello del 2009, anche se a mantenere viva l’incertezza globale resta l’event risk greco.
Le materie prime flettono lievemente in settimana, a causa soprattutto della debolezza dei metalli base. Le curve futures del rame sono in aumentato contango, cioè con prezzi a termine superiori a quelli a breve, il che suggerisce un elevato livello di scorte. Anche il premio fisico (cioè tra prezzi spot e futures) è ai minimi da molti mesi, indicatore di debole domanda fisica. Gli ultimi dati cinesi mostrano effettivamente un ulteriore accumulo di scorte.