Ieri sera, nel corso di Otto e mezzo, in una originalissima puntata dedicata agli eccessi della finanza (e che prendeva le mosse dall’ormai famoso editoriale del “pentito” di Goldman Sachs, Greg Smith), l’ottimo Beppe Severgnini si è esibito (dal minuto 5:35 a 7:10) nella reiterazione di alcuni imbarazzanti luoghi comuni, di quelli che ognuno di noi ascolta su tram, treni e nei bar, per opera di opinionisti estemporanei e senza pedigree.
Si comincia con una spettacolare inferenza sul quello che per le banche è il costo della raccolta. Sostiene Severgnini, non prima di aver sciorinato il significato del termine euribor:
«Se oggi l’euribor a tre mesi è 0,86 per cento e la tua banca ti offre il 4 per cento garantito, non hai il sospetto che per darti quella differenza debba fare delle operazioni un po’ pericolose, chiamale speculative?»
Fermo. L’euribor è il tasso al quale le banche si prestano (o dovrebbero prestarsi) fondi in modalità unsecured, cioè su base non garantita. In effetti il riferimento giornaliero ufficiale all’euribor si forma (proprio come quello del cugino londinese, il Libor) dai dati forniti da un panel di primarie banche sul livello al quale ogni banca del panel medesimo ritiene che le consorelle quotino quel tasso.
Come noto, tuttavia, il mercato interbancario è stato di fatto congelato dalla Grande Crisi, costringendo la Bce a diventare una sorta di “mercato interbancario di ultima istanza”, con tutte le disfunzioni del caso. Nella realtà, peraltro, gli eventuali scambi effettivi avvengono sulla base di un tasso che somma all’euribor uno spread, che esprime il rischio di credito della banca che prende a prestito: da questa somma si ottiene l’effettivo costo del finanziamento per la banca. Ma veniamo al tasso del 4 per cento offerto dalle banche sui depositi retail. Questo livello è elevato, oggi, perché le banche italiane tendono a perdere depositi, per motivi legati alla crisi di credito. Semplice curva di domanda e offerta, quindi.
Una cosa che Severgnini (e moltissimi altri cosiddetti opinionisti) non sanno, è che oggi le banche italiane hanno uno sbilancio tra impieghi e raccolta di circa 400 miliardi di euro. Che significa, tutto ciò? Che a livello aggregato la raccolta, cioè i depositi nelle loro varie forme (e le obbligazioni bancarie), sono inferiori ai prestiti ed agli investimenti per circa 400 miliardi di euro. Anche se non siete opinionisti, ma avete una remota idea della partita doppia, comprendete che questa differenza va colmata. Come? Aumentando la raccolta e/o riducendo gli investimenti. Tra questi ultimi ci sono i fidi, cioè i prestiti.
Le banche potrebbero ordinare ai debitori il “rientro”, cioè di rimborsare tutto o parte del prestito, e questo sta purtroppo avvenendo. Ma con cautela, visto che, così facendo, il rischio di mandare a gambe all’aria il debitore e ritrovarsi con una sofferenza è altissimo. Ci siete ancora? Se sì, dovreste aver capito che, per pareggiare depositi e impieghi, in queste condizioni, le banche sono costrette ad alzare il tasso offerto ai potenziali depositanti. Si chiamano domanda e offerta, ed esprimono un costo, comprensivo del rischio di credito.
Severgnini invece rovescia il flusso causale: il tasso sui depositi è alto, ergo le banche devono fare impieghi molto rischiosi e speculare, perché sennò non potrebbero reggere un simile costo del proprio debito. Ingegnoso ragionamento, ma del tutto errato nei flussi causali. E toglietevi dalla testa, peraltro, che le banche italiane stiano coprendo tutti gli impieghi con i finanziamenti della Bce all’1 per cento. Sbagliereste tutto: quei fondi coprono tra il 2 e l’8 per cento del totale degli attivi finanziati (vedi qui, grafico in basso).
Le banche, in altri termini, non stanno facendo la raccolta con i fondi della Bce. Perché non sarebbe possibile, perché oltre un certo limite emergerebbe comunque un pesante stigma, oltre ai limiti “fisici” e soprattutto “politici” ai volumi erogabili dalla Bce. Ecco quindi che le banche si trovano ad affrontare un costo della provvista ancora molto elevato, nel tentativo di trattenere i depositi ed attrarne di nuovi, e questo si riverbera fatalmente sul costo degli impieghi, cioè sul credito. Severgnini studi di più, quindi: le banche non vi strapagano i depositi perché “speculano” e sono rischiose, ma sono rischiose perché si trovano in condizioni di deterioramento del loro merito di credito (cioè della qualità dei loro attivi), e quindi sono condannate ad avere costi elevati della raccolta.
Non pago di questo svarione che però fa tanto cool ai giorni nostri, Severgnini ci mette il carico, affermando che
«Se i prodotti che le banche ti offrono non sono della tua stessa banca, in quel momento il tuo consulente finanziario sta facendo il piazzista, che è un altro mestiere ed è un mestiere pericoloso, per te che stai dall’altra parte»
Anche qui, cadono le braccia ed altre parti anatomiche. La “pericolosità” di prodotti di risparmio ed investimento deriva dal fatto che la banca colloca prodotti di terze parti? No, almeno non in prima battuta. Una banca piccola, di quelle a cui lo stesso Severgnini fa riferimento, è costretta a stringere rapporti commerciali di distribuzione con gestori del risparmio, perché semplicemente non dispone delle competenze e della massa critica per realizzare quei prodotti in house.
Il concetto di open architecture (o di distribuzione multimarca) non ha nulla di intrinsecamente scorretto e truffaldino per il risparmiatore. Certo, possono sorgere problemi nel momento in cui la banca spinge deliberatamente prodotti che vanno male, magari perché incassa dal gestore una commissione di retrocessione molto corposa. Ma le banche dispongono di sistemi di scoring per i prodotti distribuiti, che impediscono di continuare a vendere prodotti scadenti, anche per la pubblicità che tali prodotti (parliamo di fondi comuni) ottengono sulla stampa più o meno specializzata in termini di pubblicazione dei rendimenti.
Ma ammettiamo pure che abbia ragione Severgnini, riguardo il multimarca. Forse è preferibile che la banca collochi solo propri prodotti di risparmio? Davvero su quelli non ci sono conflitti di interesse? Ad esempio su obbligazioni strutturate, che non hanno un prezzo ufficiale e sono il trionfo della opacità per il modo in cui sono costruite e per i costi che su di esse vengono caricati e che si traducono in rendimenti attesi che sono nettamente inferiori a quelli impliciti nel “rischio emittente” della banca? Anche qui, Severgnini toppa alla stragrande. Ma è tutta la la trasmissione, malgrado la presenza in studio di un autentico specialista, anch’egli fuoriuscito dal settore, ad essere una desolante accozzaglia di luoghi comuni.
Severgnini specifica, ad un certo punto, di essere stato opinionista per conto dell’Economist, “ma non su argomenti finanziari”. Ottima precisazione grazie, ce ne eravamo accorti; malgrado la marchetta iniziale di Lilli Gruber al nostro illustre concittadino “che scrive anche sul Financial Times“. Di cucina, si auspica.