Settimana di limitate variazioni alle previsioni macroeconomiche e di ormai abituali spasmi dell’Eurozona che tuttavia, malgrado tutte le sofferenze (e quelle che verranno), non hanno ancora provocato defezioni.
Appare ormai evidente come la crisi dell’Eurozona abbia evidenziato i costi, anche drammatici, del rinunciare ad una propria valuta. La gestione e l’avvio a soluzione della crisi richiedono una profonda deflazione in periferia ed altrettanto imponenti trasferimenti di risorse dal centro. Ci si potrebbe quindi chiedere per quale motivo singoli paesi (la Grecia, oppure la stessa Germania) non abbiano ancora preso la decisione di abbandonare l’Eurozona. Il progetto dell’unione monetaria era all’origine visto come una tappa verso l’unione politica, gli Stati Uniti d’Europa. I costi di uscita dall’unione monetaria non riguarderebbero “solo” l’adozione di una moneta nazionale e fughe di capitali di magnitudine tale da causare sconvolgimenti, ma anche il progetto stesso dell’integrazione europea. Ciò avverrebbe pur ammettendo che, in astratto, un’area di cooperazione economica potrebbe ricorrere a più monete nazionali senza che ciò implichi esiti avversi. Con alta probabilità , quindi, al momento i costi di uscita dall’euro sono valutati dai paesi come ancora superiori (molto superiori) a quelli della permanenza.
Altro enigma di questi mesi di forti turbolenze in Eurozona è legato al mancato collasso delle quotazioni dell’euro, dato l’inerente rischio di implosione e la recessione in atto. Una probabile risposta potrebbe essere legata alle condizioni relative dei paesi partner dell’Eurozona (Stati Uniti, Regno Unito, Giappone), che sono complessivamente simili (per criticità ) a quelle europee, anche se la differenza fondamentale risiede, fuori dall’Eurozona, nella possibilità di utilizzare una propria valuta. E’ utile ricordare che ognuna di queste cosiddette “maggiori” valute ha subito più o meno forti deprezzamenti contro le altre valute minori del G10, quali dollaro canadese, australiano, franco svizzero, corona norvegese. Occorre anche dire che, in aggregato, l’Eurozona non ha deficit esterno (partite correnti), e che problemi di finanziamento possono avere spinto le banche dell’Eurozona a rimpatriare capitali, sostenendo quindi il cambio.
Sul mercato del reddito fisso, prezzi dei Treasury pressoché invariati in settimana, ma pressione rialzista per i rendimenti dei titoli di stato di Canada e Regno Unito, le cui banche centrali hanno segnalato la possibilità di rimozione di parte dell’accomodamento monetario, attuale o atteso. La banca centrale canadese prevede infatti condizioni di pieno impiego a metà del prossimo anno, ed il mercato ha cominciato quindi a prezzare un rialzo del tassi canadesi nell’ultimo trimestre di quest’anno. Il Regno Unito si trova invece, notoriamente,  in condizioni ben più difficili di quelle canadesi: crescita ancora anemica ma inflazione cocciutamente sopra i target, che danneggia le aspettative di ulteriore easing quantitativo. In Eurozona, pressione sui titoli di stato francesi nell’imminenza del primo turno delle elezioni presidenziali. La Spagna fa lievemente meglio dell’Italia: la tendenza potrebbe continuare, a parità di ogni altra condizione, visto che Madrid ha concentrato nella fase iniziale dell’anno il proprio calendario di emissioni, a differenza del nostro paese.
Sul mercato azionario, la reporting season statunitense ha finora espresso sorprese positive di circa il 5 per cento sul consenso degli analisti. La cosa non sorprende affatto, visto di quanto erano state ridimensionate le attese. Inoltre, in termini assoluti, fatturato e utili per azione sono in flessione rispetto all’ultimo trimestre dello scorso anno e quasi invariati rispetto ad un anno addietro. Questa debolezza, che è il risultato di una crescita globale più debole e di maggiori costi delle materie prime, era quindi già stata ampiamente scontata nelle previsioni, e la sorpresa positiva sui risultati effettivi non è riuscita a muovere i mercati, anche a causa della continua incertezza sulla crisi dell’Eurozona e sulla congiuntura cinese, che rende gli investitori riluttanti ad acquistare azioni malgrado la correzione vista nelle ultime tre settimane. I fondi azionari statunitensi segnalano peraltro ampi deflussi.
Sul mercato dei cambi, il dollaro continua ad esibire volatilità in calo e a rimanere in corridoi di oscillazione piuttosto stretti, verosimilmente per l’operare di forze che si elidono, legate a rischi quali la crisi europea, la decelerazione della Cina, la posizione attendista della Fed. Le pressioni ribassiste che potrebbe operare sul dollaro per effetto dell’attuazione di strategie di carry trade (in cui il biglietto verde è valuta di indebitamento) sono represse dal fatto che le valute ad alto rendimento sono quelle di esportatori di materie prime (le cui sorti sono quindi legate in modo significativo ai destini della Cina) o le cui banche centrali hanno ormai acquisito una consolidata reputazione interventista (come nel caso del Brasile) per impedire apprezzamenti eccessivi della propria valuta.
In settimana, materie prime ancora in calo, guidate dall’energia con il Brent in flessione di circa il 3 per cento, mentre il WTI risale di 1 dollaro a barile. A inizio maggio dovrebbe avere luogo l’inversione del flusso petrolifero della pipeline che collega il congestionato punto di raccolta di Cushing, in Oklahoma, alle raffinerie del Golfo del Messico, e ciò dovrebbe consentire di ridurre il differenziale tra Brent e WTI.