La Lex del Financial Times illustra efficacemente la criticità dimensionale del sistema bancario europeo, e quanto sarà accidentata la strada verso l’unione bancaria, se mai ne avremo una. Il dato più eclatante è quello riferito al peso medio sul Pil del paese di provenienza delle passività bancarie: tra il 300 ed il 400 per cento, rispetto ad un valore di “solo” il 100 per cento per le banche negli Stati Uniti, Canada e Sud Africa, come si evince da una ricerca di Barclays.
Questi sono gli effetti perversi (ma all’epoca ritenuti virtuosi) della dimensione transnazionale del credito in Europa, negli anni immediatamente successivi all’introduzione dell’euro. Le banche si sono progressivamente gonfiate a multipli del Pil del paese di provenienza prestando fuori dai propri confini (e ricorrendo in misura crescente all’interbancario per indebitarsi, anziché ricorrere ai più stabili depositi), e diventando delle bombe atomiche innescate perché, a fronte di questa espansione dimensionale, non sono stati realizzati meccanismi di vigilanza e risoluzione sovranazionali di eventuali crisi, e gli stessi schemi di assicurazione dei depositi sono rimasti di tipo strettamente nazionale.
Allo scoppiare della crisi, le banche hanno scaricato il peso del proprio dissesto da gigantismo sovranazionale sulle proprie strutture nazionali, facendo esplodere il debito pubblico. Per usare le parole del governatore di Bank of England, Mervyn King, le banche europee si sono dimostrate “globali in vita, nazionali in morte”. Emblematico il caso dell’Irlanda, le cui banche sono giunte ad avere passività pari al 700 per cento del Pil nazionale. Stesso discorso per la Spagna, nel cui caso peraltro il cartellino del prezzo del salvataggio non è ancora noto ma certamente sarà ben più elevato dei 100 miliardi di euro offerti dalla Ue.
Altro elemento che differenzia le banche europee da quelle statunitensi è il fatto che le prime, oltre ad avere avuto uno shock dimensionale senza contrappeso regolatorio, sono soprattutto al centro del sistema di finanziamento dell’economia, nella propria area di operatività. In altri termini, l’Europa dei finanziamenti è molto più bancocentrica degli Usa. Qui, solo per fare un esempio, le aziende si finanziano ricorrendo in misura significativa ad emissioni obbligazionarie, e non a credito bancario.
Ecco perché la natura caratteristica del ruolo del sistema bancario europeo rende così difficoltoso (ed oneroso) evolvere verso forme di integrazione del mercato bancario: se da un lato ciò diluirebbe le criticità dimensionali nazionali (ad esempio, il settore bancario irlandese finirebbe col pesare il 12 per cento del Pil dell’Eurozona), dall’altro l’ammontare complessivo di depositi da assicurare sarebbe comunque elevatissimo rispetto agli Usa. La Lex calcola che anche tassando un quinto degli utili delle banche europee per cinque anni, il totale di risorse ottenibili sarebbe comunque inferiore a ciò di cui dispone oggi lo schema di assicurazione dei depositi statunitense. Questo significa una cosa sola: che se anche si dovesse arrivare a creare un’assicurazione unica dei depositi bancari europei, ciò richiederebbe comunque di raccogliere risorse non solo dalle banche ma anche (soprattutto) dai contribuenti.
Non una constatazione piacevole, ma se non si passa da questo processo (e da molti altri, primo fra tutti l’integrazione fiscale), per l’Eurozona la prognosi resterà infausta e pure ad evoluzione molto rapida.