Almeno a livello diagnostico, evitate di ululare anzitempo. Ma l’analisi del responsabile economico del Pd, comparsa oggi sul Foglio, contiene elementi descrittivi condivisibili, non foss’altro perché la realtà non è (o dovrebbe) essere disputabile, anche se questi mesi e settimane ci offrono numerosi esempi di mondi paralleli percepiti da qualche neofita della politica.
Partiamo dai punti condivisibili dell’analisi di Fassina. Dapprima, la divergenza di competitività che accentua la non ottimalità dell’area valutaria. Fassina peraltro identifica correttamente anche il ruolo aggiuntivo (e decisivo) giocato dai flussi finanziari nell’accentuazione degli squilibri, e la cosa sorprende piacevolmente:
«Come correttamente riflesso dagli spread sui titoli decennali dei Piigs, i rischi di rottura della moneta unica e di disgregazione europea sono sempre più elevati»
«Perché? Per scelte politiche inadeguate ad affrontare il problema di fondo dell’euro: le divergenze di competitività tra le sue aree. Sin dall’inizio, i padri fondatori dell’euro sapevano bene che l’Eurozona non era un’area monetaria ottimale. Purtroppo, però, l’egemonia conservatrice prevalse e si affidò la soluzione esclusivamente alla disciplina di bilancio e al mercato unico (più un pizzico di Fondi strutturali). Una strada senza uscita»
«I paesi periferici, inebriati dalla finanza facile in arrivo dai paesi core a coprire i deficit di bilancia commerciale, rinviavano, chi più chi meno, le riforme e gli investimenti innovativi pubblici e privati e si limitavano, chi più chi meno, a flessibilizzare e ridurre il costo del lavoro»
E manco quello, a dirla tutta. Fassina accusa poi la Germania di mercantilismo, per essere riuscita ad attuare una svalutazione interna vincente, anche perché coniugata con indiscutibile eccellenza produttiva. L’obiezione a queste considerazioni è: “bene, ma perché l’Italia non è riuscita a fare lo stesso, avendo peraltro anch’essa una forte vocazione alle esportazioni?”. Ed è una obiezione largamente condivisibile, perché mette sul banco degli imputati il paese più cialtronescamente entropico e sgovernato d’Occidente. Ma al contempo non si dovrebbe dimenticare che, anche volendo, orientare diciassette paesi molto eterogenei fra loro in termini di struttura economica ad un modello di sviluppo mercantilista ed orientato all’export è impresa disperata. Come sostiene Fassina:
«Ma, al di là della brutalità di attuazione, la via mercantilistica alla correzione degli squilibri macroeconomici è una strada impossibile. Per una ragione semplice e intuitiva: il mercantilismo, per definizione, non è generalizzabile. Affinché qualcuno abbia un surplus commerciale qualcun altro, di almeno pari stazza, deve aver un deficit»
E torna, nell’argomentare di Fassina, anche l’intuizione del “vendor financing“, il riciclaggio del surplus commerciale da parte del sistema finanziario tedesco:
«Per la Germania, nel primo decennio dell’euro, ha funzionato in quanto le economie periferiche si indebitavano grazie al finanziamento facile delle banche tedesche e francesi»
Ma perché non è possibile “forzare” il resto del mondo ad un deficit nei confronti di un’Eurozona come sommatoria di diciassette Germanie, piccole e grandi? Tre spiegazioni, secondo Fassina:
«1) l’area euro è tra le aree economiche più rilevanti del pianeta; 2) i Brics non vogliono e comunque non possono rovesciare il loro sentiero di sviluppo in pochi mesi o pochi anni e 3) gli Stati Uniti, per 20 anni consumatore globale di ultima istanza, sono impegnati a ridurre il loro enorme debito esterno»
La conclusione è intuitiva: non può esistere un’Eurozona come sommatoria di diciassette Germanie:
«In sintesi, la rotta mercantilista seguita nell’euro-zona è insostenibile. Genera, inevitabilmente, recessione, disoccupazione, aumento del debito pubblico, aggravamento degli squilibri macroeconomici tra le aree della moneta unica. I risultati conseguiti sono inequivocabili»
La pars destruens fassiniana si chiude con quella che purtroppo risulterà, a posteriori, una facile profezia:
«Le speranze di ripresa collocate dal Presidente del Consiglio nel primo trimestre del 2013 sono, purtroppo, infondate. Quale driver di domanda dovrebbe tirare l’inversione di tendenza? I consumi delle famiglie subiranno un’ulteriore flessione a causa della maggiore disoccupazione e dell’esaurimento di parte delle indennità di disoccupazione, dei tagli al welfare nazionale e locale, dell’aumento regressivo di prezzi, tasse e tariffe, delle minori disponibilità di risparmio. Gli investimenti delle imprese saranno imbrigliati dalle tristi aspettative di domanda. Il bilancio pubblico accentuerà il suo impatto regressivo dato che l’insieme delle manovre di finanza pubblica approvate nel biennio alle nostre spalle implica ulteriori 25 miliardi tra tagli e maggiori imposte per il 2013. Rimane il miraggio delle esportazioni. E’, appunto, un miraggio poiché, come ricordato sopra, ciascuna economia europea e extraeuropea prova a scaricare sul vicino o sul lontano la sua speranza di maggiore produzione»
E quindi:
«“L’agenda Monti”, così acclamata e così poco compresa da Matteo Renzi&C, non funziona. Non per colpa di Monti. Il presidente Monti si è trovato, da un lato, vincolato dall’agenda conservatrice europea e, dall’altro, costretto a confermare gli impegni ancor più restrittivi, sottoscritti per deficit di credibilità politica, dal governo Berlusconi-Bossi-Tremonti. Come indicammo già nella primavera del 2011, l’obiettivo di pareggio di bilancio al 2014 era impossibile. Anticiparlo al 2013, sulla base dei dictat di Bruxelles e Francoforte, unico caso nell’euro-zona, diventava un’avventura autolesionistica, come è sempre più evidente»
La posizione di Fassina è chiara e netta: un’unione economica e monetaria tragicamente sbagliata, un altrettanto tragico buco di domanda a causa di politiche di austerità e di rientro dal debito. Quanti tra voi (tra noi) non condividono abitualmente quasi nulla del pensiero di Fassina, rispondano: dov’è la domanda? Noi, a differenza di Fassina, riteniamo che gli aggiustamenti supply-side siano importanti (anche e soprattutto dal lato del lavoro) ma, a differenza di qualche Stranamore confuso che ancora crede che la crescita verrà solo dalle riforme dal lato dell’offerta, pensiamo serva un mix di due tipologie di interventi: rimodulazione del consolidamento fiscale, mantenendone la credibilità agli occhi dei mercati, e riforme di struttura (lato offerta). E non basterebbe, perché la terza gamba, lo stimolo di domanda pubblica, non può avvenire: causa crisi fiscale nei singoli paesi; causa mancanza di accordo a livello comunitario.
Che propone, quindi, Fassina? Unione fiscale con introduzione della Golden Rule, cioè escludendo gli investimenti pubblici dal rapporto deficit-Pil, investimenti europei finanziati con europroject bond e con l’improbabile coperta di Linus della sinistra chiamata tassa sugli investimenti finanziari (auguri), coordinamento comunitario delle politiche di tassazione e tutela degli standard retributivi, come originariamente previsto dal Six Pack, meccanismo condiviso di ristrutturazione dei debiti sovrani non sostenibili, differenziali inflazionistici tra centro in espansione e periferia in contrazione.
Sono tutte proposte astrattamente razionali, soprattutto se viste in un’ottica sistemica ed al netto di un più che evidente bias laburista-socialdemocratico, certamente assai più razionali di quella che Fassina definisce “la falsificata teoria classista dell’expansionary fiscal adjustment di Giavazzi e Alesina“. Sfortunatamente, oggi in Eurozona non esistono le condizioni politiche minime anche solo per evolvere verso questi esiti non autodistruttivi. Forse potremmo/potremo ridurre i danni con il ritorno di una grande coalizione in Germania, ma siamo a poco meno di un anno da quell’appuntamento, e nel frattempo potrebbe succedere di tutto.
Quindi la sintesi è: diagnosi di Fassina in larga parte condivisibile, come anche la prognosi in termini di esiti fortemente e negativamente disfunzionali che colpiranno il lavoro e la società. Terapia proposta pressoché irrealizzabile, oggi, su scala europea, l’unica che conti davvero. A questo punto il timore è che una così pregnante, sistemica e corretta analisi finisca con l’essere declinata su scala nazionale nella forma di smantellamento della riforma pensionistica, finanziata da ulteriore aumento della pressione fiscale, non solo sui “ricchi”. Gli esiti sarebbero non meno che tragici, soprattutto per il lavoro e quelle classi deboli che Fassina dice di voler proteggere. Non se ne esce.