Tobin Tax all’italiana, anche peggio del temuto

Ebbene si, cari lettori: anche questo sito, che molti di voi leggono con ammirevole costanza, può sbagliare. Ed è successo nel caso della Tobin Tax, varata nei giorni scorsi in Italia dal governo Monti tra squilli gaudiosi di altermondialisti e tassatori compulsivi. Abbiamo sbagliato nel senso che non abbiamo letto bene nelle pieghe del provvedimento europeo. Se lo avessimo fatto, avremmo scoperto “dettagli” a metà tra l’esilarante ed il demenziale.


Questi dettagli sono illustrati sul Corriere da un nome che è una garanzia: Salvatore Bragantini, già commissario Consob ed uno dei maggiori esperti di funzionamento e regolazione del mercato finanziario italiano. Bragantini ha scoperto che dall’ambito di applicazione della gabella, nel testo europeo, sono escluse le operazioni aperte e chiuse in giornata. Il che implica che verrebbe graziato non solo il trading ad alta frequenza, ma anche i day trader. Tirando le somme, ad essere colpiti sarebbero solo i piccoli risparmiatori, sia quelli che operano direttamente compravendendo azioni (ma non titoli di stato, che restano esclusi dall’applicazione del balzello), sia gli investitori istituzionali che compravendono tali valori mobiliari in nome e per conto di terzi, ad esempio fondi comuni e fondi pensione. Eccellente risultato, non c’è che dire, creato probabilmente per ottenere l’assenso di Londra (mai arrivato) e massimizzare il numero di paesi partecipanti alla cooperazione rafforzata, ma che di fatto produce un forte aumento di frammentazione del mercato unico.

Bragantini segnala inoltre che il tributo non si applica alle transazioni in cambi ed in materie prime, che erano gli ambiti di applicazione elettiva della originaria proposta di James Tobin. Non solo: gli undici paesi che si sono accordati sul meccanismo comunitario di cooperazione rafforzata stanno già procedendo ognuno per conto proprio, pensando ai propri bilanci nazionali e definendo le basi imponibili nei modi più fantasiosi possibili. Neppure l’ombra di quella omogeneità applicativa che servirebbe almeno a tentare di minimizzare gli effetti di segmentazione del mercato unico. Il tutto senza ovviamente contare che la mancata partecipazione del Regno Unito agli accordi pone una pesantissima ipoteca sul funzionamento del tributo, che mai come oggi appare destinato a fare una brutta fine, a meno di essere profondamente emendato nelle modalità di definizione dell’imponibile e di destinazione del gettito.

Riguardo quest’ultimo, Bragantini osserva che siamo ben lungi dalla messa in comune per finalità di contributo al bilancio comunitario, come invece auspica Angela Merkel. L’ex commissario Consob suggerisce quindi l’applicazione del tributo in somma fissa e moderata, inclusiva del trading ad alta frequenza ma tale da agire in modo puramente frizionale, tale cioè da non creare incentivi alla delocalizzazione degli intermediari ed alla creazione di un “offshore intracomunitario”, come invece allo stato attuale siamo ben avviati ad ottenere. Vedremo nelle prossime settimane.

Se invece volete leggere un esempio di articolo che non informa ma fa solo dell’ideologia arruffona ed a buon mercato, vi segnaliamo i parallelismi di Marco Panara su Repubblica. Il quale fa il parallelo very pop del latte sul quale si paga l’Iva e delle azioni Generali ed Enel su cui non si pagherebbe nulla, bontà sua. Peccato che su quelle azioni si paghi il 20 per cento su dividendi a capital gain e l’imposta patrimoniale sostitutiva dell’1 per mille sulle giacenze, che dal prossimo anno passerà all’1,5 per mille. Se cerca tasse a carico del risparmio, Panara dovrebbe sforzarsi di essere meno agitatore e più analitico. Quanto agli intermediari, per i quali converrebbe non mettersi a piangere, vale quanto detto sopra: se un broker chiude in Italia ed apre a Londra o in Lussemburgo, lo stato italiano perde gettito d’imposta. Eppure Panara non ci arriva, mettendoci pure la raccomandazione che “a pagare le tasse è chi compra, cioè risparmiatore, investitore o speculatore che sia, e non l’intermediario”. Certo, ma l’articolista dimentica che dal calo dei volumi di transazioni conseguente all’introduzione del tributo a pagare sono gli intermediari, che alla fine chiudono o delocalizzano. Il mondo è sempre più complicato di quanto non appaia ai nostri vispi occhietti.

Vogliamo davvero replicare la bravata della tassa sulle imbarcazioni per ignorante ideologismo economico?

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