Un articolo di Roberto Petrini su Repubblica ci informa che l’aumento dell’Iva dal 21 al 22 per cento, che dovrebbe scattare il prossimo 1 luglio, potrebbe scattare ma i suoi effetti negativi potrebbero essere attenuati o, nientemeno, “evitati”. Come è possibile una simile magia? E’ possibilissima, come stiamo per vedere. Perché siamo in Italia e spesso conta la forma, non la sostanza.
Scrive Petrini:
Come evitare l’impatto sulle famiglie dell’aumento Iva e al tempo stesso ridurre al massimo l’impiego di risorse finanziarie? Il piano allo studio prevede di far scattare l’aumento ma di attenuarne l’effetto mediante un rimescolamento dei tre «panieri»: quello che aumenterebbe al 22 per cento potrebbe essere sfrondato da alcuni beni diventati ormai di largo consumo e necessità quasi primaria (alcuni parlano, ad esempio, dei telefonini) che potrebbero scendere ad una aliquota agevolata. Diverso il discorso per i beni che oggi godono di aliquota agevolata, che costituiscono una spesa cospicua per lo Stato e che le raccomandazioni di Bruxelles del 29 maggio chiedono di «rivedere»: la perdita di gettito per il regime del 4 per cento costa 14,5 miliardi mentre quella del 10 per cento costa 25,5 miliardi
Scritta così sembra lineare ma non lo è affatto. Intanto, “attenuare l’effetto” dell’aumento Iva è un non senso: in media, come risultante del reddito e dei modelli di consumo che da esso discendono, i consumatori pagheranno di più o di meno dalla rimodulazione delle aliquote, cioè la manovra avrà un effetto distributivo. Poi, bisogna scendere nel dettaglio dell’elasticità della domanda al prezzo. Da libro di testo, questa è minima per i beni di prima necessità, quali gli alimentari. Moltissimi dei quali, non a caso, sono nella fascia di aliquota agevolata al 4 per cento. Ciò significa che la domanda di tali beni varia meno che proporzionalmente all’aumento del loro prezzo, e quindi che un aumento dell’aliquota d’imposta non ne danneggia il gettito.
Ora, è molto probabile che alzare l’aliquota sui beni a domanda inelastica al prezzo determinerebbe un aumento di gettito, tale anche da permettere di evitare di alzare l’aliquota ordinaria, oggi al 21 per cento. Ovviamente ci sarebbe un “piccolo” effetto collaterale: i beni a domanda poco elastica al prezzo sono, in prima approssimazione, anche quelli di prima necessità, come gli alimentari. Spostare la loro aliquota dal 4 al 21 per cento sarebbe quindi fortemente regressivo. Certo che, come scrive Petrini, spostare i telefonini dal 21 al 10 o al 4 per cento perché sono diventati “necessità quasi primaria” (la loro domanda è anelastica al prezzo? O anche la domanda di ricariche telefoniche?) ridurrebbe l’effetto distributivo e pure quello regressivo. A noi questa pare una sontuosa sciocchezza, ma bisogna recitare secondo lo spirito del tempo bacato in cui viviamo. E comunque, non per essere pedanti, ma se si vuole massimizzare il gettito occorrerebbe spostare da aliquota ordinaria ad agevolata i beni ad alta elasticità della domanda al prezzo, non quelli anelastici. O no? Anche in questo caso, l’effetto sull’equità sarebbe un tantino penalizzante ma che volete che sia, quando si deve fare cassa.
Ma non saremmo gli unici, in caso, ad agire entro le tre aliquote Iva: una operazione analoga di “riposizionamento” è stata compiuta anche dalla Spagna, in occasione dell’ultimo aumento dell’aliquota ordinaria. Che vi siano molti beni il cui posizionamento nella aliquota minima ha poco senso, è un dato di fatto. Ben diversa, come si intuisce, sarebbe una manovra di ricomposizione dei panieri finalizzata solo all’aumento di gettito.