Su noiseFromAmerika, Alberto Bisin e Sandro Brusco tentano di spiegare perché sarebbe fallace, oltre che logicamente e metodologicamente sbagliato, valutare le privatizzazioni di società pubbliche confrontando il loro dividend yield con il costo medio del debito pubblico. Il tentativo riesce solo in parte, e per motivi del tutto differenti da quelli individuati.
Andiamo con ordine, visto che il post di Alberto e Sandro è lungo (fors’anche al limite del trascinamento) e denso di suggestioni. Cominciamo con l ‘aspetto strettamente “contabile”. Scrivono B&B:
«C’è però un argomento che sembra apparentemente convincente e che è bene sviscerare, perché rappresenta una fallacia in cui è facile cadere, e che più o meno funziona così: l’Eni distribuisce un dividendo del 5,9%, mentre il costo medio del debito pubblico è del 4,5%. Quindi, se vendiamo Eni per due miliardi rinunciamo a incassare circa 120 milioni l’anno, mentre con due miliardi di debito in meno evitiamo di pagare 90 milioni l’anno»
Vediamo, allora. Intanto, sul piano strettamente numerico, non c’è alcuna fallacia. Il Tesoro smette di incassare dividendi Eni per circa 120 milioni di euro, e ritira con la stessa somma debito pubblico che costa, in media, il 4,5%, con un risparmio atteso di 90 milioni di euro. Questo accade nel primo esercizio di imposta, e non ci sono molti santi. Ci sarebbe, è vero, l’aspetto fiscale:
«Quando l’investitore è lo Stato va bene guardare al rendimento lordo; le tasse pagate infatti finiscono comunque al Tesoro. Ma se lo Stato vende la sua quota, allora non rinuncia a tutto il dividendo ma solo alla parte che resta dopo le tasse. Se, per esempio, chi riceve il dividendo paga in media il 20% di imposte allora quei soldi continuano ad andare allo Stato anche una volta vendute le quote di sua proprietà. Per cui, in tale ipotesi, il dividendo cui si rinuncia non è il 5,9% ma l’80% del 5,9%, ossia 4,72%. Lasciamo ad altri che capiscono di diritto tributario più di noi il compito di fare i calcoli corretti, se proprio vogliono, ma a occhio ci pare che questo riduca parecchio la convenienza dell’investimento in Eni per lo Stato, anche ignorando il maggiore livello di rischio (cosa che, non ci stancheremo di dirlo, non si dovrebbe fare)»
E’ vero, ma anche no. La fiscalità del 20% è applicata a persone fisiche, fondi comuni di investimento e (indirettamente) ad imprenditori e società di persone. Se invece parliamo di società, ad esse si applica il regime della participation exemption (PEx), che tassa col 27,5% di aliquota Ires solo il 5% dei dividendi distribuiti. Con un complesso algoritmo, si tratta di una tassazione dell’1,375%. Ora, come è ripartito un eventuale azionariato Eni? Sarebbe carino, oltre che molto idealistico, se tutti gli azionisti di un’Eni interamente privatizzata fossero persone fisiche o fondi comuni di investimento. Sfortunatamente, Eni è una delle società italiane col maggior possesso istituzionale, residente e non residente. Ah, anche le società non residenti pagano sui dividendi ricevuti da società italiane un’aliquota equivalente al tax rate della PEx, solo reso esplicito per ovvi motivi, non pagando l’Ires: sempre 1,375% è.
Vogliamo ipotizzare che la dismissione della quota pubblica residua di Eni vada per il 50% a persone fisiche o assimilate e per l’altro 50% a società in regime di PEx o assimilata? Ecco che il “recupero d’imposta” per lo Stato scende intorno al 10%, e di conseguenza il dividend yield “netto” di Eni scende intorno al 5,4%, sempre più del costo medio del debito pubblico ritirato. Ma questo è un dettaglio minore. Il problema, secondo B&B, è la non comparabilità tra cessione di quote azionarie e costo del debito pubblico, perché c’è di mezzo il rischio. E’ verissimo. Ma non nei termini presentati nel post.
Alberto e Sandro si lanciano poi in una serie di esempi volutamente surreali per dimostrare che, secondo la fallacia che (giustamente) tentano di disvelare, ci sono situazioni in cui è possibile creare letteralmente denaro dal nulla, se solo si esclude il rischio dall’equazione. Gli esempi citati sono l’acquisto di titoli di stato portoghesi (che “renderebbero” come Eni, ma in realtà no, e lo vediamo tra poco), oppure una strategia di rinnovo dello stock di debito pubblico che sfrutti la forte pendenza della curva dei rendimenti, quindi emettendo solo titoli a breve e brevissimo termine, che oggi costano poco e nulla all’emittente. Una simile strategia abbatterebbe da subito il costo medio del debito, ma al carissimo prezzo di aumentare a dismisura il cosiddetto rollover risk. Se devo rinnovare a breve una montagna di titoli di stato e qualcosa va storto nei miei conti pubblici, esiste il rischio catastrofico che gli investitori mi piantino in asso, ed io faccia default. Verissimo anche questo, gli esempi che denunciano ed irridono la fallacia di un mondo senza considerazione del rischio sono perfetti. Ma poi si arriva ad Eni, e le cose cambiano drasticamente.
Scrivono B&B, enfasi mia:
«Eni paga undividend yield del 5,9% perché è percepita come più rischiosa del debito sovrano italiano, e se Eni (o il tesoro portoghese) pagasse un rendimento inferiore probabilmente avrebbe difficoltà a raccogliere capitali»
Qui comincia la fallacia dei cacciatori di fallacia. E sono dolori. Intanto, cosa è il dividend yield? Molto banalmente, è il rapporto tra il dividendo atteso ed il corso azionario di un titolo. Da cosa dipende? In prima approssimazione, dal fatto che un’azienda dispone di risorse generate dalla propria gestione che sono eccedenti rispetto alle opportunità di investimento, e quindi restituisce agli azionisti tale eccedenza. Ovviamente, non sempre accade questo. Ci sono aziende che si indebitano per aumentare il dividendo. Entro dati limiti, ciò serve ad ottimizzare il proprio costo medio ponderato del capitale, e quindi massimizzare di riflesso l’enterprise value. Ma se si eccede una determinata soglia critica, il mercato punisce l’azienda troppo indebitata aumentandone la rischiosità, sia attraverso aumento del costo del debito che di quello del capitale. Come regola del pollice, quando un’azienda raggiunge una fase di maturità, il suo dividend yield tende ad aumentare.
Veniamo al punto. Il dividend yield rappresenta, come affermano B&B, un indicatore di rischiosità di una società? Ma quando mai! Qui siamo alla matita blu, diretta. Le aziende in fase di startup hanno feroci esigenze di cassa, quindi tendono ad essere molto indebitate (a caro prezzo, per evidenti motivi di elevato rischio di morte precoce) e non pagano dividendo. Se valesse il ragionamento di B&B, che credono che il dividend yield rappresenti la rischiosità di un’azienda, le startup sarebbero l’investimento più sicuro del pianeta. Certo, ma del pianeta Fallacia, nella Galassia-che-non-c’è.
Altro punto, che discende dal ragionamento generale di B&B sulla opportunità di privatizzare Eni. Scrivono i due economisti, ad esempio:
«Alla fine, quanto può pagare Eni di dividendo deve dipendere da come Eni è gestita. È chiaro che se la gestione di Eni migliorasse con una minore partecipazione statale, si potrebbe vendere la quota dello Stato a un prezzo più alto»
Ed anche:
«Il fatto che una parte della proprietà sia pubblica e che quella parte riceva un rendimento del 5,9% non è in sé cosa buona. Significa semplicemente che lo Stato si sta indebitando per poi giocare d’azzardo in borsa, una strategia che ci sentiremmo di sconsigliare all’investitore medio (che lo Stato dovrebbe rappresentare)»
La prima proposizione è indiscutibilmente vera. La seconda deriva direttamente dal marchiano errore metodologico di credere che il dividend yield rappresenti un indice sintetico di rischiosità di una società. Ma vediamo il confronto tra Eni ed i suoi maggiori competitor, per decidere se e come Eni è “sgovernata” in virtù del controllo pubblico. Qui sarebbe bastato osservare che il dividend yield dei maggiori concorrenti europei di Eni è pressoché identico a quello del cane a sei zampe. Total è al 5,27%, Royal Dutch Shell è al 5,37%, BP è al 5,34%, Repsol al 5,17%. Quindi? Sempre dell’idea che Eni sia sgovernata dalla mano pubblica, oppure può darsi che l’alto dividend yield rappresenti un elementi distintivo che conferisce agli europei attivi nell’E&P una certa “aria di famiglia”?
Veniamo e chiudiamo con la reale misura della rischiosità di Eni. Intanto, le metriche di debito. Eni è sovraindebitata e sottocapitalizzata? Secondo il database Bloomberg, Eni ha un quoziente debt-to-equity pari a 41,42. I suoi competitor, in Europa Occidentale, hanno questa metrica al 50,12, cioè sono meno capitalizzati di Eni. In termini di profittabilità da gestione caratteristica, cioè prima della struttura finanziaria, Eni ha un margine operativo pari all’8,44%, mentre i suoi concorrenti in Europa Occidentale lo hanno a 4,78%. Quindi, pare che Eni sia mediamente più capitalizzata dei suoi peers, e che guadagni anche di più a livello di gestione caratteristica. Da ultimo, il beta di Eni rispetto al mercato, calcolato da Bloomberg su due anni, è di 0,83, cioè il titolo appare più difensivo (i.e. meno rischioso) del mercato. I suoi peers hanno beta di 0,88. Ancora una volta: Eni non è più rischiosa del mercato né dei propri competitor regionali, non è sottocapitalizzata rispetto ai medesimi, guadagna quanto e più dei medesimi, senza giochetti finanziari. Possiamo quindi insinuare (dopo aver frainteso il significato di dividend yield, ribadiamolo) che Eni è rischiosa perché gestita con troppo debito per pagare dividendi al Tesoro? Vale, in altri termini, una frase come questa?
«Il fatto che una parte della proprietà sia pubblica e che quella parte riceva un rendimento del 5,9% non è in sé cosa buona. Significa semplicemente che lo Stato si sta indebitando per poi giocare d’azzardo in borsa, una strategia che ci sentiremmo di sconsigliare all’investitore medio (che lo Stato dovrebbe rappresentare)»
No, non vale per nulla. E’ un errore logico, metodologico, una fallacia, una opinione ideologica.
Ma soprattutto, Eni è davvero più rischiosa dello stato italiano, come sostengono B&B per tenere in piedi il ragionamento sulla fallacia di escludere il rischio dai calcoli? Manco per idea, spiacenti. Guardiamo la vera metrica di rischio emittente, il debito. Il credit default swap quinquennale di Eni questa mattina vale 88 punti-base, quello della Repubblica Italiana vale 187 punti-base. Pare che i mercati considerino Eni assai meno rischiosa della Repubblica Italiana sul costo del debito, che dite? Del resto, se le agenzie di rating assegnano al cane a sei zampe A3 (Moody’s) e A (S&P), mentre la Repubblica Italiana è a Baa2 (Moody’s, mentre S&P ha ritirato il rating mesi addietro), qualcosa vorrà pur dire, no? Ma se non credete alle agenzie di rating ed ai loro giudizi sommari, prendete i bond Eni. Chessò, quello che scade il 12 settembre 2025 e paga cedola del 3,75%. Questa mattina rende il 3,36-3,26%, denaro-lettera. Quanto rende il corrispondente Btp, il primo marzo 2025, cedola 5%? Ebbene, rende il 4,21%. Ancora una volta, chi è più rischioso?
In sintesi, il post di Sandro ed Alberto dice cose giustissime in termini della necessità di calcolare la rischiosità di un investimento a fini di comparazione ma sbaglia su tutta la linea nel caso di Eni, oltre a commettere l’errore piuttosto grave di equivocare sulle metriche di rischio, credendo che il dividend yield di una azione lo sia (e non lo è), oppure affermando assiomaticamente che Eni sia più rischiosa della Repubblica Italiana (e non è vero). Ma sono fiducioso che Sandro ed Alberto, che sono persone di onestà intellettuale indiscutibile ed indiscussa, sapranno emendare i loro errori. Diverso discorso per un loro collega, neo-politico già fallito in culla, che gira l’Italia ed i social network insolentendo il prossimo e parlando di argomenti che non padroneggia. Ma per fortuna esiste il libero arbitrio, ed ognuno è padrone di sputtanarsi affondare la propria reputazione come meglio preferisce.