Oggi sul Giornale compare un editoriale di Vittorio Feltri che è very pop per il contenuto ed i suggerimenti, ma dimostra quanto alto sia il rischio che editorialista, in Italia, faccia rima con barista.
Il tema sono gli arricchimenti illeciti, o qualcosa del genere. Periodicamente emergono ondate di sdegno per gli episodi di corruzione; da esse discendono le inevitabili richieste di punizioni esemplari, forche, nuovi codici degli appalti, creazione di authority anti corruzione guidate da supereroi con mantello, nuove minuziose norme che invariabilmente producono rallentamenti del processo decisionale che vengono in seguito sbloccati solo grazie ad ulteriori norme emergenziali che portano a spianare controlli che già di per sé erano del tutto formali, nella persistente assenza di un owner di processo in capo alla pubblica amministrazione committente. Siamo un paese generatore di circoli viziosi che tanto sarebbe piaciuto a Ionesco. E finiamo sempre nel girone dantesco dei ripetenti tonti, quelli che sbavano per il cappio.
L’editoriale di oggi di Feltri è parte integrante di questa (sub)cultura da bar della forca. Leggere per credere:
«Sarebbe sufficiente applicare un metodo caduto in disuso benché a suo tempo avesse fornito risultati eccellenti. Mi riferisco alla pubblicazione obbligatoria delle denunce dei redditi. Di chi? Di tutti. Si tratta di immettere in Rete, divisi magari per categorie professionali e per luoghi di residenza, i nomi, i cognomi e i soprannomi di chiunque percepisca del denaro a qualsiasi titolo. Poniamo che io abbia un reddito annuo di 100mila euro e si certifichi che ne spendo in media 200mila. Anche un cretino sospetterebbe che stia ciurlando nel manico. Le autorità ordinano una bella verifica e mi sgamano all’istante, poiché ormai il denaro è tracciabile e si può agevolmente risalire a come lo abbia speso e a dove sia andato a prenderlo, visto che non l’ho denunciato. Se ho commesso un reato, dopo 20 minuti vengo incastrato e mi tocca pagare»
Da dove cominciare? Eviteremo di citare tutti gli editoriali in cui Feltri se la prende con lo stato di polizia tributaria di berlusconiana memoria e con iniziative come lo spesometro/redditometro, che sono parenti strette (anzi, è proprio la stessa cosa) di quanto egli oggi prescrive con voluttà. Anzi no, non lo eviteremo affatto, restate sintonizzati.
Davvero Feltri crede che la capacità di spesa trovi un limite superiore nell’imponibile fiscale? Mai sentito parlare di disinvestimenti patrimoniali o di redditi di capitale che ad oggi sono soggetti ad imposta sostitutiva e di conseguenza non transitano per la dichiarazione dei redditi, caro direttore? E soprattutto, se stiamo andando verso l’informatizzazione spinta dell’amministrazione fiscale dello stato, con accesso ai conti ed alle movimentazioni degli stessi ed a forme di profiling che inducono accertamenti, Feltri sarebbe così gentile da spiegarci quale sarebbe la ratio non solo della pubblicità delle dichiarazioni dei redditi ma anche di quella delle spese, che egli pare invocare?
Avremmo, ben più di quanto abbiamo oggi, un paese con la bava alla bocca, dove tutti punterebbero il dito contro tutti, sospettandoli di ladrocinio ed evasione fiscale, anche se non si tratta di funzionari pubblici. Pensate che favola: da un lato i colpevoli che “dichiarano troppo poco“, dall’altro i colpevoli (più propriamente i “ladri”) che dichiarano “troppo“, dove “troppo” e “troppo poco” sono parametri ovviamente soggettivi. Con buona pace di uno degli innumerevoli gemelli di Feltri, quello che dardeggiava editoriali contro chiunque puntasse il dito contro il benessere altrui, ritenuto illegittimo a prescindere perché il denaro è il noto sterco cattocomunista del demonio. Ma nessun problema, non esiste obbligo di coerenza in questo paese dalla memoria di breve termine seriamente lesionata, nota anche come demenza politica.
Ovviamente, Feltri ci attacca l’immancabile argomentazione che ricorda tanto quella dei ferventi manettari dell'”e adesso, intercettateci tutti”, ed ecco la frasetta magica:
«È ovvio che chi abbia la coscienza a posto non deve temere alcunché. Coloro che, viceversa, abbiano sgraffignato, tremino pure: chissenefrega»
Yawn. Questo è il gemello del Vittorio Feltri che, il 9 gennaio 2013 (lo sappiamo, è passata un’era geologica, e notoriamente l’Italia è un paese densamente popolato di soggetti intelligentissimi, perché solo i cretini non cambiano mai idea), scriveva, enfasi nostra:
(…) Befera sostiene, in estrema sintesi, che se uno spende più di quanto denunci deve giustificarsi: dove sei andato a prendere i soldi? Se il contribuente non fornisce risposte soddisfacenti, sono cavoli suoi. L’onere della prova non spetta all’Agenzia delle entrate, ma al cittadino. E questo è il punto delicato.
In un Paese decente non tocca a me dimostrare di non aver rubato, ma tocca alla giustizia dimostrare il contrario. In teoria. Anche la giustizia fiscale dovrebbe attenersi a questo principio. Il redditometro consente di stabilire ciò che ho comprato nell’anno. E va bene. Ma se ho pagato i conti col denaro incassato tre anni fa invece che con quello del mio ultimo reddito, cosa succede? E se mi sono indebitato? Se ho venduto l’argenteria o un quadro? Gli esempi potrebbero essere mille. Ma al di là di tutto questo, la sensazione diffusa è che lo Stato italiano, se non poliziesco, sia avviato a diventarlo.
Venghino, signori, il Bar Forca Fiscale di Vittorio Feltri, garantista in pensione ed affetto da una grave forma di amnesia piuttosto ricorrente in soggetti della sua età, è aperto.