Lo scalone mobile di Barbagallo

La Uil ha  lanciato uno “spunto di riflessione” sulla contrattazione collettiva, da estendere alle altre sigle sindacali, per giungere ad un nuovo modello, pubblico e privato. E’ il tentativo, piuttosto velleitario, di riprendere l’iniziativa e contrastare le spinte sempre più forti alla decentralizzazione contrattuale in capo alla singola azienda. Tutto lecito, per carità, non si è mai vista una organizzazione complessa che attende il meteorite che ne causerà l’estinzione, ma è l’architrave della proposta che lascia perplessi, per usare un eufemismo.

Tale architrave è espressa in modo piuttosto generico o più propriamente ambiguo:

Un unico modello contrattuale valido per tutti i lavoratori, pubblici e privati, che allunghi la sua durata da 3 a 4 anni, che confermi i due livelli, e che ancori gli aumenti salariali all’aumento del Pil

Dunque, a parte i due livelli contrattuali che sembrano avviati se non all’estinzione quanto meno ad un drastico riequilibrio a favore di quello aziendale, è quell'”ancoraggio dei salari al Pil” che non si capisce. Par di capire che, per il sindacato guidato da Carmelo Barbagallo, l’inflazione non vada più bene, visto che nel frattempo si è pure trasformata in deflazione. Ma si fa presto a dire Pil. Intanto, parliamo di quello reale o di quello nominale? Partendo dal presupposto che gli italiani non soffrano di illusione monetaria, e quindi che guardino al potere d’acquisto (che è una entità reale), che facciamo quando il Pil reale si contrae, situazione che è diventata la specialità italiana degli ultimi anni? Tagliamo le retribuzioni reali? Se invece scegliamo il Pil nominale (la somma di Pil reale e deflatore), serve segnalare che anche quello in Italia non se la passa troppo bene. In caso di calo che facciamo, tagliamo le retribuzioni tabellari? Verrebbe da dire di si, perché l’alternativa è la disoccupazione crescente, visto che se i prezzi sono rigidi il mercato si aggiusta sulle quantità.

Ma soprattutto, per quale motivo applicare il Pil a settore e singola impresa? Il punto è guardare alla creazione di valore aggiunto, e per questo in ogni momento ci saranno fisiologicamente settori in ascesa, altri maturi e quindi stazionari, ed altri declinanti. Stesso discorso per singole imprese entro un dato settore. Per quale motivo assoggettarli tutti alla variazione del Pil? E questa specie di scalone mobile quanta parte degli aumenti contrattuali (o delle decurtazioni) dovrebbe rappresentare? E’ poi bizzarro che Barbagallo faccia un bel calderone mettendoci dentro la crescita del Pil (senza specificare se reale o nominale) ed anche la produttività, che è grandezza reale.

Se obiettivo del sindacato (e della sinistra sociale) è quello di contrastare la diseguaglianza (vaste programme), allora serve governare la quota di valore aggiunto che va a remunerare il lavoro anziché il capitale, parlando in astratto. Ma “indicizzare” le retribuzioni al Pil è un perfetto nonsenso. Forse servirebbe avere dei sindacati un filo più competenti in economia e realtà. Si eviterebbero queste iniziative estemporanee che servono solo ad attestare la propria esistenza in vita.

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