Ecuador, un’economia terremotata. Da Correa

A inizio settembre, l’Ecuador ha ottenuto un prestito di emergenza di 364 milioni di dollari dal Fondo Monetario Internazionale per far fronte ai primi interventi di ricostruzione dopo il devastante sisma del 16 aprile scorso. Il problema del paese è che il terremoto è solo l’ultima calamità che colpisce un paese ad economia dollarizzata, a causa di una iperinflazione di anni addietro, frutto di politiche populiste che tanto piacciono (o piacevano) dalle parti del Sudamerica e non solo.

Perché occuparsi del povero e remoto Ecuador, alla cui popolazione va la nostra incondizionata solidarietà? Per alcuni buoni motivi. Ad esempio, perché l’Ecuador era stato indicato come “modello” sia dal confuso comico che in Italia guida un movimento non meno confuso, ma anche dal leader in ascesa (si fa per dire) di un movimento di sinistra altermondialista come Podemos, in Spagna. Uno dei tanti che, con grande sprezzo del ridicolo, andava in giro a proclamare che l’Ecuador ha compiuto un miracolo economico ed è un “modello di socialismo del Ventunesimo secolo“, ricordando il default del 2007, che Correa proclamò, appena asceso al potere invocando la “rivoluzione dei cittadini”, dopo attento esame di quale parte del debito pubblico esterno del paese fosse “illegittimo”, cioè “odioso”. Tre anni dopo, con un colpo da maestro degno dei “fondi avvoltoio” ma a ruoli invertiti, il governo di Correa si ricomprò le due emissioni di debito su cui aveva fatto default, pagandole il 30-35% del valore nominale.

Negli anni di forza dei prezzi del greggio e debolezza del cambio del dollaro, l’Ecuador visse un classico boom da materie prime, di quelli che tanto piacciono ai demagoghi sudamericani per restare al potere a colpi di mance, ed alla sinistra europea da salotto per indicare la Via. Col crollo delle quotazioni del greggio, la festa è finita. Il paese si è trovato con un bel buco di bilancio “spontaneo” e senza politica monetaria, essendo dollarizzato. Che si fa, in questi casi? Essere privi di una propria valuta è un dramma, ma non disporre di un fondo di stabilizzazione creato coi proventi del greggio ai tempi delle vacche grasse (quello che gli anglosassoni chiamano rainy days’ fund) è un grave problema. A dirla tutta, quel fondo esisteva, ma fu lo stesso Correa a saccheggiarlo e chiuderlo, con la motivazione che non avesse senso, “né tecnico né etico”.

Negli anni del boom petrolifero, la spesa pubblica su Pil è passata dal 21% del 2006 al 43% del 2014. Il debito pubblico, nello stesso periodo, quindi post default, dal 15% al 30%, che diventa 40% con gli accordi di finanziamento con la Cina, legati alla fornitura del petrolio. Nel 2015 Correa si è ripresentato sui mercati, emettendo debito quinquennale in dollari al tasso del 10,5%, rapidamente incettato da investitori di memoria corta e fame di rendimento. Operazione ripetuta quest’anno, con tasso al 10,75%, doppio di operazioni simili realizzate da Perù e Colombia. Il crollo del prezzo del greggio e la dollarizzazione hanno lasciato il paese in condizioni finanziarie estremamente precarie.

Correa, finito spalle al muro, ha iniziato a tagliare la spesa (in modo prociclico, ça va sans dire) ed alzare le tasse ai “benestanti”, uno schema classico che anche noi italiani ben conosciamo. Solo che di benestanti in Ecuador ne sono rimasti pochi, e il presidente ha pensato di colpire anche le imprese. Due punti di aumento Iva, una sovraimposta sui profitti aziendali, un inasprimento sulle imposte immobiliari e persino una addizionale equivalente ad un giorno di salario per i lavoratori che guadagnano oltre 1.000 dollari al mese. Non l’ideale per stimolare l’offerta, si direbbe. L’insieme di queste misure proletarie è quantificato in 2,4 miliardi di dollari, ed è utilizzato dal governo come motivazione per finanziare i costi della ricostruzione post sisma, quantificati in 3,3 miliardi di dollari. Anche se stime esterne al paese parlano di costi che non eccedono il miliardo di dollari.

La morale e la sintesi: il paese è impiccato ad una moneta estera come persistente punizione per la sua precedente dissipatezza fiscale, che ha demolito la valuta nazionale (pare che il cambio non si possa utilizzare per realizzare desideri, ma non ditelo in giro). La presidenza Correa ha speso come se non vi fosse domani, eliminando anche i fondi pubblici di stabilizzazione, che altri paesi hanno sotto forma di fondo sovrano (vedasi Cile con andamento del prezzo del rame). Ora l’aggiustamento potrà passare solo da un drastico taglio di spesa (stimato in oltre l’8% di Pil), oppure dalla introduzione di una moneta nazionale (operazione che andava fatta nei momenti di benessere e non certo ora), che nessuno userebbe, preferendo rifugiarsi nel porto sicuro del dollaro.

Ad oggi il servizio del debito costa al paese circa 7 miliardi di dollari, a fronte dei 2,5 miliardi destinati all’istruzione ed a circa 1,5 miliardi per la salute. Quindi, o un nuovo boom dei prezzi del greggio, oppure un nuovo default “à la Correa”, cioè preceduto da recriminazioni sul capitalismo cattivone, che permetteranno ai Pablo Iglesias ed ai Beppe Grillo sparsi in giro per il mondo di battere felici le manine per il grande risultato contro i poteri forti della finanza mondiale ed a favore della sovranità. Decisamente un modello, il povero Ecuador.

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