di Vitalba Azzollini
Molti nostri connazionali, specie se in posizioni di vertice, non perdono occasione per cimentarsi in un’attività in cui eccellono particolarmente: il deresponsabilizzante vittimismo per ingiustizie di cui è colpevole qualcun altro. Negli ultimi giorni il podio è toccato ad alcuni vertici della Rai, in occasione dell’inserimento dell’azienda di Stato, da parte dell’Istat, entro il perimetro delle pubbliche amministrazioni, sulla base di criteri di natura statistico-economica recentemente previsti dal Sistema europeo dei conti (Sec 2010).
L’inclusione non è perciò imputabile al capriccio di qualche “euro-burocrate ottuso”: la Rai vi rientra non solo in quanto ente a controllo statale, ma perché i suoi costi di esercizio non vengono ripagati per più della metà mediante proventi derivanti dalla vendita di servizi. Essa è, infatti, finanziata per il 70,12% dei ricavi complessivi dal canone televisivo (che è un’imposta sul possesso dei televisori, non il corrispettivo per la vendita di un servizio: meglio rammentarlo) e solo per il 29,88% da proventi pubblicitari e di natura commerciale (dati dell’ultimo bilancio). Una delle conseguenze della predetta inclusione sarebbe (il condizionale è d’obbligo…) la sottoposizione della Rai alle regole per acquisti e spese che vincolano ogni altra P.A. I vertici dell’azienda concessionaria del “servizio pubblico” sono subito insorti, poiché l’equiparazione di quest’ultima “alla pubblica amministrazione va in direzione antitetica al fatto di riuscire ad essere competitivi rispetto ad altri soggetti”: sembrano, pertanto, lamentare la circostanza che tale equiparazione possa penalizzare la Rai nella concorrenza con le emittenti private.
E’ davvero singolare la concezione che della concorrenza hanno i vertici citati, i quali invece non inarcano neanche un sopracciglio quando – cioè costantemente – a essere penalizzati nella competizione televisiva sono tutti gli altri partecipanti. Chi nell’azienda di Stato occupa posizioni apicali non ignora che, se pure è giustificabile il “finanziamento (…) del servizio pubblico mediante ricorso all’imposizione tributaria” e se tale finanziamento incide per circa il 70% sui proventi totali, il servizio pubblico reso dalla Rai agli utenti-finanziatori dovrebbe pesare nella stessa percentuale sul totale della programmazione. Ma i conti sembrano non tornare (come un paper IBL ha rilevato di recente): considerando le reti generaliste, le trasmissioni astrattamente riconducibili al “servizio pubblico” (“programmi di informazione e di approfondimento”, “programmi e rubriche di servizio” e “programmi e rubriche di approfondimento culturale”) occupano soltanto il 52,2% del palinsesto (v. ultimo bilancio). Ne consegue che il 18% circa dell’imposta pagata dai contribuenti viene impropriamente convogliata verso trasmissioni diverse da tale “servizio”, dunque svolte in concorrenza: è evidente “l’aiutino” – termine appartenente all’insulso gergo televisivo – di cui l’emittente di Stato gode rispetto alle quelle private, con le quali non compete di certo ad armi pari.
Tuttavia, i difensori della concorrenza, purché a scapito di qualcun altro, si guardano bene dal lamentarsi per la sua palese distorsione in favore della propria azienda. In qualità di vertici della Rai sono sicuramente al corrente che la Commissione europea (2009/C 257/01) ha chiesto agli Stati membri di considerare come forma di best practice la separazione funzionale o strutturale del servizio pubblico radiotelevisivo dalle attività di natura commerciale, al fine di garantire la trasparenza e “il rispetto della piena concorrenza”: eppure non hanno preteso che nell’agenda di chi li ha collocati in ruoli apicali della TV di Stato fosse inserito uno specifico intervento, non meramente amministrativo-gestionale, di divisione tra attività di servizio pubblico, sovvenzionate dal canone dei contribuenti, e altre attività finanziate con la raccolta pubblicitaria. Da strenui paladini della concorrenza, quali oggi vogliono apparire, ci si sarebbe aspettati, innanzi tutto, che richiedessero al governo del quale sono emanazione di definire con chiarezza la sostanza di un “servizio” che oggi si concreta in un “fritto misto di puro intrattenimento, bassa qualità culturale, grande spazio a informazione ‘orientata’ filo schieramenti politici”; in secondo luogo, che suggerissero una gara pubblica per l’aggiudicazione del servizio stesso, obbligando la Rai ad aprirsi ai privati al fine di parteciparvi a pari condizioni. Invece, i tutori della concorrenza in stile nazional-popolare non hanno neanche proposto, quale soluzione minimale per attenuare la rilevata distorsione concorrenziale, di eliminare la pubblicità dalle trasmissioni “di servizio”.
Probabilmente, a seguito di ricorsi giurisdizionali, di fini interpretazioni fornite da abili legali o di soluzioni come quella che nei mesi scorsi evitò l’applicazione del tetto retributivo ai dirigenti, la Rai sarà espunta dal novero delle P.A.; ma, se pure vi restasse inclusa, continuerebbe quasi certamente a fruire di un trattamento privilegiato per assunzioni, appalti e molto altro, essendo stata esentata di recente dall’applicazione del c.d. codice dei contratti pubblici, cui sono soggette le altre amministrazioni. Di ciò i vertici Rai sono di certo a conoscenza, eppure hanno preferito lagnarsi per l’ingiustizia subita anziché recitare un doveroso mea culpa: per evitare quanto oggi lamentano, sarebbe bastato che la Rai fosse stata privatizzata come votato dai cittadini a seguito del referendum del 1995, come disposto da una legge del 2004 e ribadito nel c.d. Testo Unico della radiotelevisione nel 2005.
Tuttavia, forse è davvero spassionato l’amore per la concorrenza di chi viene stipendiato dai contribuenti per stare a capo di un’azienda che può vantare un totale di 11.825 dipendenti per un costo di 888,3 milioni (il 38% sui 2.335 miliardi di ricavi), mentre il suo principale competitore ne ha 5.484, per un costo di 520,5 milioni (il 14,8% su 3.524 miliardi di ricavi). Del resto, basta definire come libero mercato quello in cui si è liberi di competere sperperando i denari dei contribuenti – con l’alibi che ci sono cose che meritano di essere sussidiate – e il gioco è fatto. Non è il gioco dei “pacchi”, uno di quelli che fa più audience sulla TV di Stato, ma la paccottiglia di un reality quotidiano realizzato con i soldi nostri: “la Rai sei tu”, ci avevano pure avvisato…
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Vitalba Azzollini, giurista, lavora in un’autorità di vigilanza (esprime opinioni a titolo esclusivamente personale). È autrice di paper e articoli in materia giuridica.