Dopo i dati di ieri dell’Osservatorio Inps sulla precarietà, che hanno mostrato un andamento non brillantissimo del contratto a tempo indeterminato, per usare un understatement, torna l’antica disputa metodologica: “meglio” i dati Inps, che registrano in modo puntuale attivazioni e cessazioni di contratti di lavoro, oppure le indagini campionarie Istat? La risposta è banale: dipende. Da cosa state cercando di giustificare.
Ad esempio, oggi su l’Unità compare un articolo a firma congiunta di Filippo Taddei e Tommaso Nannicini che, dopo aver premesso che i contratti di lavoro non sono i posti di lavoro perché una persona nell’unità di tempo considerata può avere avuto più di un contratto (tipicamente i tempi determinati), spiega perché i dati Istat sono più probanti di quelli Inps:
«[…] mentre l’Istat utilizza una indagine per misurare l’effettivo numero di posti di lavoro attivi in un dato mese. In conclusione, è un po’ sorprendente utilizzare i dati Inps per decretare il fallimento del Jobs Act e della sua azione di stabilizzazione»
Seguono alcuni esempi numerici riferiti al solo mese di agosto (il Grande Anomalo, per definizione), in cui Taddei e Nannicini tentano di dimostrare che non esiste alcun effetto precarizzante del Jobs Act. Detto incidentalmente, chi scrive è concorde con Nannicini e Taddei sull’esigenza di non sovrainterpretare i dati sui licenziamenti, di cui sappiamo davvero poco. Ma che scriveva invece Nannicini sul Sole, a febbraio 2016, con Marco Leonardi, sulla disputa teologica Inps vs. Istat? Tra le altre cose, questo:
«I dati dell’Inps, che sono i più adatti a valutare i risultati del Jobs Act in quanto registrano il numero dei contratti aperti e cancellati dai datori che devono obbligatoriamente pagare i contributi, registrano un forte aumento delle assunzioni nette a tempo indeterminato (perché, appunto, le cessazioni sono inferiori alla somma di assunzioni e trasformazioni)»
Il commento, peraltro, era riferito ad un periodo (gennaio-novembre 2015) che era pesantemente dopato dalla decontribuzione piena, ed invitava Istat di fatto ad “armonizzarsi” con i dati Inps, controllando meglio per la stagionalità:
«Un supplemento di indagine sarebbe senz’altro opportuno e l’Istat ha già istituito un gruppo di lavoro per spiegare le differenze che emergono dai due tipi di dati nel breve periodo»
Quindi, meglio Inps di Istat. Casualmente, nel periodo in cui i dati Inps erano oggettivamente più brillanti per il tempo indeterminato. Non vogliamo annoiarvi, però: ognuno si faccia la sceneggiatura che preferisce. Noi ci limitiamo a confrontare i dati cumulativi dell’Osservatorio Inps con lo stesso periodo del 2015 e 2014, anche per smorzare anomalie di singoli mesi.
A proposito di film, corre l’obbligo di menzione speciale per Pietro Ichino, intervistato da Repubblica:
Dopo il picco del dicembre 2015 della percentuale di assunzioni stabili sul totale, il 67%, si è passati a un modestissimo 24,9%
«Il dato si spiega molto facilmente: l’incentivo economico ha fatto si che le imprese anticipassero al 2015 molte assunzioni che altrimenti sarebbero avvenute nel 2016»
Prego? Quindi il professor Ichino ci sta dicendo che abbiamo preso a prestito domanda di lavoro dal futuro, manco fosse la rottamazione delle auto? Ma allora, perché buttare soldi (da 15 a 18 miliardi in un triennio) per qualcosa che sarebbe comunque avvenuto, per effetto della ripresa? Pare proprio che il concetto sia questo, visto che Ichino lo ribadisce:
«Il governo ha usato il doppio shock, economico e normativo, come un medico usa un defibrillatore per rimettere in moto un organismo infartuato. E questa manovra d’emergenza ha funzionato. È paradossale che ci si dolga perché centinaia di migliaia di persone sono state assunte nel 2015 invece che nel 2016»
Forse non è paradossale lamentarsi di aver speso soldi per prendere a prestito occupazione dal futuro, professor Ichino. Bizzarre similitudini cardiologiche a parte. E non sappiamo che accadrà a quelle assunzioni se, il primo gennaio 2018, il costo del lavoro non sarà stato ridotto in modo permanente e definitivo.
Al netto di queste amenità, si conferma che l’Italia è una repubblica propagandistica fondata sul cherry picking e l’analfabetismo statistico. O sull’analfabetismo tout court.
Aggiornamento – Se vi piacciono le figure, ecco a quale conclusione potete arrivare:
No, cari @TNannicini e @taddei76 i dati Inps (flussi) e Istat (stock) sono concordi. Stabilizzazioni van giù. Stock si aggiusta con lag pic.twitter.com/Epw8yZk2K5
— Thomαs Manfredi™ 🇯🇲 (@ThManfredi) October 19, 2016